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RICORDATE la trama del Giudizio Universale, il film di De Sica e Zavattini? Un cielo plumbeo grava su Napoli mentre la città, brulicante di vita, mette in scena i suoi soliti drammi. Dal mattino una voce rimbomba nel cielo, annunciando che“alle 18 comincia il Giudizio universale”; ma nessuno pare farci caso, preso com’è dalle urgenze della vita quotidiana.

La trovata degli autori del film sta nel fatto che, nonostante l’assurdità dell’evento e l’enormità della minaccia che incombe sull’umanità, la vita –come in un teatro- segue il suo corso obbligato e nessuno sa e può sottrarsi alla routine, a una parte già scritta. Non sembra l’Italia di oggi? Un Paese nel quale ognuno, a cominciare da coloro che hanno responsabilità di governo, segue un percorso già tracciato, ed è incapace di ascoltare  le voci che  annunciano l’imminente resa dei conti? In fondo, in questa constatazione non si scopre nulla di nuovo. Fu forse più lungimirante la classe politica che nel giro di pochi mesi fu spazzata via da Tangentopoli? Anche allora la caduta fu preceduta da innumerevoli segni premonitori, ma nessuno volle o seppe farvi caso. Tuttavia, il film di De Sica e Zavattini suggerisce anche altre analogie. L’annuncio del Giudizio universale, di cui si precisa anche l’ora di inizio, richiama i solerti bollettini con i quali i servizi meteorologici e la protezione civile allertano la comunità, specificando con dovizia di particolari dove, come e quando si manifesterà, per restare in tema biblico, il diluvio.

E’ accaduto, ad esempio in questi giorni. Ma credete che basti? Come dimostrano gli eventi degli ultimi due mesi (quattro morti nel Metapontino, sedici in Sardegna e altri in queste ore) evidentemente no. E, dunque, si può ragionevolmente prevedere che altri disastri si ripeteranno, che altri lutti incombono. Il problema è, forse, nel fatto che non si conoscono le cause della fragilità del territorio e non possono essere studiati e messi in atto dei rimedi? No. C’è ormai una vasta e capillare letteratura scientifica in grado di spiegare il perché, il come, e di prevedere il quando dei fenomeni disgregativi in atto nelle nostre città e nelle nostre campagne: fenomeni che aumentano in estensione e intensità a causa, come ci viene illustrato, di una stolta, ma a quanto pare irrefrenabile, alterazione degli equilibri naturali.

E’ allora un problema di volontà? Di mancanza di consapevolezza? Di scarso senso di responsabilità? Dell’incapacità, spacciata per impossibilità, di trovare le risorse per far fronte all’emergenza delle emergenze? Sì, probabilmente si tratta di tutte queste cose. Una serie di problemi, tuttavia, che per quanto riguarda l’Italia, non può essere caricato semplicemente sulle spalle di chi ha responsabilità di governo, oggi come ieri. E neppure su questa o quella parte del Paese. Se l’Italia è fragile e indifesa, in misura forse superiore a quanto lo fosse qualche decennio fa, lo si deve anche a qualcosa che fa parte di quello che potremmo definire, in mancanza di meglio, il carattere nazionale del Paese: un carattere denunciato da tanti scrittori e giornalisti del passato, a partire dal Dopoguerra. E al quale si deve il cinismo e talvolta l’incoscienza con cui è stato brutalizzato, nel corso del Dopoguerra, il panorama italiano. Leo Longanesi diceva (negli anni 40) che, irriducibili a qualunque ordine sociale, gli italiani, “animali feroci e casalinghi”, e tra i quali ci sono dei “buoni a nulla capaci di tutto…”, “non amano la natura”. E che “alla manutenzione preferiscono l’inaugurazione”, mentre “i problemi sociali non si risolvono mai: invecchiano, passano di moda e si dimenticano”. Ennio Flaiano, in una nota del 1963, giunge alla stessa conclusione.”Gli italiani non amano la natura…”, afferma sconsolato passeggiando con un amico lungo la foce dell’Arrone. Aveva notato che dei pescatori avevano trasformato l’antica spiaggia in una landa “piatta e polverosa…distruggendo quasi tutte le 42 specie di piante che formano la macchia mediterranea e che sono interdipendenti (cioè, ognuna aiuta l’altra a vivere)”. “Ci chiedevamo – aggiunge – come mai perfino i pescatori (che pure conoscono il mare e i venti) non avevano capito la necessità di conservare quell’ordine vegetale stabilito dalla natura, che difendeva le loro case e temperava il loro clima”. Ne concludeva che l’italiano, povero o ricco, “davanti a un paesaggio non si commuove, non lo vede come un fatto armonico e intangibile (suscitatore di emozioni e presidio di memoria) ma lo scompone nei suoi singoli componenti utlitari…quel che gli serve, se lo prende, e il resto lo distrugge..”. Bisogna insomma augurarsi che, prima o poi, tutti gli italiani avvertano, sulla propria pelle, da “animali feroci e casalinghi”,  che la salvezza del territorio (vale a dire di tutti) coincide con il loro reale (cioè particolare) interesse immediato e futuro. Si sa che essi danno il meglio nelle situazioni di estrema necessità. Ma che cosa altro deve accadere perché essi si sveglino, prima di trovarsi sotto il diluvio universale?

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