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La presentazione del libro di Leonardi e Nanetti nei giorni scorsi ha avuto il merito di far ridiscutere del futuro della Basilicata.
Gli autori hanno portato al centro della loro riflessione il tema del rendimento istituzionale, come pilastro del capitale sociale regionale. Che Putnam (presente al convegno) ed i suoi allievi coltivino il filone del capitale sociale è opera meritoria che peraltro si innesta su concetti già espressi da grandi meridionalisti, come Nitti e Fortunato, secondo cui il divario Nord-Sud attiene, prima che alla economia, alla cultura che i singoli territori esprimono.
Putnam, quando fa l’esempio dei due semi immessi in due vasi differenti che crescono in dipendenza delle caratteristiche del terreno in cui sono piantati, non fa altro che ricordare la metafora del biancospino del grande Giustino Fortunato, in base alla quale una pianta così ruvida dà un fiore, se trova un contesto ottimale per farlo.
La mia impressione è che ci si trovi avanti ad un libro, per molti aspetti, “ideologico”, programmato per fare il punto sui primi 40 anni di storia della istituzione dell’Ente Regione. Non è un caso che abbia rilanciato la retorica della regione come “modello”, un tema vecchio e, spero, superato, non fosse altro perché le dimensioni territoriali, demografiche ed economiche che la caratterizzano sono ben lontane dalle realtà presenti e soprattutto di prospettiva che vi sono a livello mondiale e nazionale che attendono risposte di efficienza e competitività socio-economica che chiaramente una piccola regione non può dare.
L’analisi del capitale sociale implica un approccio empirico, sperimentale; la sua natura è fortemente aspaziale ed in quanto tale rende estremamente complessi i tentativi di misurazione delle regole istituzionali derivanti da contesti molto ampi e dunque non circoscritti soltanto alla sfera locale. L’aver voluto nel libro prospettare virtuosità della Basilicata, in termini di capitale sociale, mi sembra azione fuorviante e pericolosa rispetto alle sfide che la regione ha di fronte che sono, a dir poco, complicatissime. Il capitale sociale lucano è debole e non può che essere così, perché è debole l’economia, debole la borghesia professionale e produttiva, storicamente adusa a ricercare protezioni, privilegi corporativi, rendite di posizione, è debole per difetti marcati sul piano culturale ( gli ultimi dati sulla lettura lo dimostrano), è debole perché la politica con la sua invasività ha coltivato molti mercati protetti, pubblici e privati, è debole soprattutto perché risente della influenza di istituzioni esterne che fissano regole di gioco alla società lucana, da cui non si può prescindere.
De Filippo, il presidente della Giunta regionale, ha ragione nel sostenere che se in 150 anni, ossia dall’unità d’Italia ad oggi, il dualismo nord-sud è inalterato, ne vanno ricercate le ragioni fondamentali che evidentemente vanno ben al di la delle politiche e di singole realtà regionali fin qui intraprese e che attengono al prevalere da sempre degli interessi economici “forti” concentrati nel nord.
Al Mezzogiorno è toccato il ruolo di fornitore di mano d’opera in abbondanza per comprimere i salari nelle aziende del nord, di area di mercato di consumo per i prodotti settentrionali, e la funzione, infine, di assicurare voti ai sistemi di potere via via predominanti, ottenendone in cambio risorse per garantire la sopravvivenza della classe dirigente meridionale, concependo l’intervento straordinario sostitutivo dell’intervento ordinario.
Lo sviluppo della Basilicata si gioca a Roma, a Bruxelles, prima che a Potenza. De Filippo lo sa e non a caso sta puntando i piedi su partite cruciali per la regione, come la definizione di un federalismo effettivamente solidale, avanti ai tentativi sempre più spinti della Lega di trattenere risorse al nord, alla crescita di egoismi locali che rendono molto più difficile di ieri l’opera di sintesi di una politica nazionale realmente capace di ricondurre ad unità i problemi economici, in un’epoca peraltro di proliferazione di forze politiche sempre più ripiegate su motivazioni particolari (vedi i tanti partitini del sud), avanti alla imposizione di regole e sanzioni nazionali discutibili ed ai tentativi di subire ulteriori scippi delle risorse naturali presenti in Basilicata (petrolio, acqua, in particolare).
Il futuro della regione dipende dai big players, e dunque in primo luogo dal governo nazionale che elabori un piano per il sud innovativo rispetto ai tanti interventi del passato, dalle ferrovie dello Stato che deve raccordare la rete lucana all’alta velocità nazionale, dall’Anas, da coinvolgere nel completamento della viabilità a scorrimento veloce, se vogliamo uscire dall’isolamento geografico, assicurandoci altresì le nuove tecnologie informatiche (banda larga, ecc.), dall’Eni e le altre multinazionali che operano nel campo energetico che non possono pensare esclusivamente allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, ma che devono concorrere allo sviluppo complessivo della regione, dalle grandi banche che devono assecondare il processo di crescita della Pmi locale.
Certo la regione deve fare la sua parte. Oggi disponiamo di un capitale politico giovane, molto impegnato a riflettere sulle esigenze di cambiamento che la prospettiva di sviluppo socio-economico richiede.
Occupa totalmente le rappresentanze istituzionali (regione, province, comuni, partiti di maggioranza, ecc.) e non ha responsabilità diretta delle luci (che pure ci sono state) e delle molte ombre che hanno caratterizzato la politica e la società regionale nel suo complesso.
Eredita un contesto non certo esaltante: la “servitù volontaria”, di cui parla Michela Marzano e quella imposta da prassi clientelari consolidate e di conseguenza difficili da rimuovere, una impresa per molti aspetti improbabile, giovani in larga parte demotivati, una scuola ed una università che non sono in grande sintonia con ciò che il mercato del lavoro richiede e che sforna diplomati e laureati con progetti di vita lavorativa deboli, un apparato burocratico composto da bravi funzionari (pochi, per la verità) e da una pletora di organizzatori di consenso elettorale. Rimuovere queste criticità non sarà semplice. Elevare la qualità della politica è sempre stata considerata operazione rischiosa per i detentori del potere: avere il coraggio di mettere in discussione il proprio posto non è mai stata una prerogativa della classe politica, qui come altrove.
Dobbiamo augurarci fortissimamente che la nuova classe politica abbia il coraggio di rischiare il proprio tornaconto per perseguire l’interesse generale. Mi torna in mente una felice frase che circola nelle piazze italiane e che alimenta movimenti in tante parti del mediterraneo: se non ora, quando?

Nino D’Agostino

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