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REGGIO CALABRIA– Un personaggio complicato, al centro di molte vicende criminali reggine, su alcune delle quali ancora bisogna fare luce. Nino Lo Giudicesi è autoaccusato delle bombe contro i magistrati reggini del 2010, quando venne preso di mira in particolare il procuratore generale Di Landro. Ma tra i ruoli che si è autoattribuito Nino, detto il Nano, c’è pure quello di aver contribuito con le proprie dichiarazioni alla cattura del superboss Pasquale Condello, detto il supremo.

Una versione, questa, che però non ha riscontro. Lo Giudice, che da 36 ore risulta scomparso dalla località protetta, ha riferito anche del ruolo apicale, col grado di “padrino”, che ha assunto nella cosca dopo la morte del padre, Giuseppe, ucciso nel giugno del 1990 durante la guerra di mafia.   

Il suo arresto è avvenuto poi nel 2010. Era il 7 ottobre, otto giorni più tardi arrivò la decisione di collaborare con la giustizia, mentre era detenuto nel carcere di Rebibbia. Iniziò così a fare le prime rivelazioni all’allora procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone.   Prima di lui, il passo verso lo Stato lo aveva fatto nel 1999 il fratello minore Maurizio, dopo una pesante condanna per l’omicidio di un ristoratore reggino, Giuseppe Giardino, al quale Maurizio aveva tentato di sottrarre l’incasso della giornata sotto casa della vittima.   

ORFANI DEL BOSS – Antonino e Maurizio Lo Giudice sono i pentiti figli del defunto boss del quartiere Santa Caterina di Reggio Calabria, Giuseppe, ucciso ad Acilia. In tutto i fratelli Lo Giudice erano dodici. I ragazzi si forgiarono durante l’infuriare della guerra di mafia scoppiata dopo l’assassinio del boss Paolo De Stefano, il 13 ottobre 1985, ad opera dei sicari al soldo del “supremo”, Pasquale Condello, ora detenuto per una condanna all’ergastolo. In quegli anni, i Lo Giudice innescarono una violenta faida con la famiglia Rosmini, anch’essa schierata con Pasquale Condello, a causa dell’uccisione di Ernesto Rosmini, avvenuta nel 1986. Una lotta virulenta, che provocò una decina di omicidi. 

GLI AFFARI DELLA FAMIGLIA – Lo Giudice e Rosmini, sotto l’alta garanzia di Condello, diventarono poi alleati.   Dopo la “pace” di ndrangheta, a metà degli anni ’90 e con l’operazione Olimpia, emersero i nuovi assetti di comando nelle ‘ndrine di Reggio Calabria. I figli di “Peppe” Lo Giudice si interesseranno solo di usura e commercio di frutta e verdura e restarono fuori dagli appalti pubblici e privati, settore dove primeggiano i Libri, i Tegano, i Condello e tutta la galassia delle famiglie a loro collegate. Affari in tutta Italia e nei settori più svariati quelli che gestiva la cosca Lo Giudice. Nino li ha descritti minuziosamente nel Tribunale di Reggio Calabria.  La cosca Lo Giudice, secondo quanto ha riferito il pentito rispondendo alle domande del pm, Beatrice Ronchi, gestiva una serie di attività economiche utilizzando i proventi delle estorsioni: commercio di automobili di lusso e commercio di legname a Milano e di gioielli a Prato, investimenti nel settore immobiliare a Padova. Attività che venivano curate dallo stesso Nino Lo Giudice soprattutto dopo l’arresto del fratello Luciano.  

GLI ATTENTATI AI GIUDICI REGGINI – Nel 2010 le cosche cominciano ad alzare il tiro su obiettivi istituzionali, come la Procura generale e lo stesso Pg, Salvatore Di Landro, oggetto di attentati dinamitardi. Poi arrivarono l’arresto e il pentimento di Nino Lo Giudice.   Tra le prime rivelazioni fatte ci furono proprio quelle relative agli attentati ai magistrati reggini. Lo Giudice si è autoaccusato delle bombe alla Procura generale ed al Pg Di Landro chiamando in causa anche il fratello Luciano Lo Giudice, Antonio Cortese, ritenuto l’armiere della cosca, e Vincenzo Puntorieri.

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