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POTENZA – Appelli respinti, sia quello della Fenice Edf sia il ricorso incidentale del Comune di Melfi. È la sentenza del Consiglio di Stato che mette una pietra sopra una vicenda che parte dallo sversamento di acque contaminate nei territori adiacenti l’inceneritore di Melfi e culminata nel 2013 con una sentenza del Tar lucano che in sostanza accoglieva il ricorso dell’azienda sulla responsabilità e i siti da bonificare. Dunque è bene partire dalla sentenza del Tar che ha stabilito: «Per ordinare alla Fenice l’estensione dell’ubicazione dei punti di indagine anche sui terreni di proprietà altrui, posti a valle (…) devono prima nuovamente accertare il superamento dei valori di concentrazione soglia di contaminazione nelle acque sotterranee dei predetti terreni confinanti». In pratica Fenice non è responsabile della bonifica delle acque contaminate al di fuori il terreno di proprietà della società. I rilievi di Fenice Edf però erano molti più e solo due in quella sentenza sono stati accolti: il primo è quello che riguarda l’estensione dell’area di indagine e il secondo invece sul divieto di utilizzo di acqua demineralizzata nei pozzi di ricarica della falda, nella zona tra la barriera idraulica creata per mettere in sicurezza l’area dell’impianto, con la realizzazione di una serie di pozzi da dove viene estratta in continuo l’acqua sotterranea, e i pozzi di monitoraggio del Vulture Melfese esistenti nell’area dell’impianto prima della scoperta dell’inquinamento. Le cose poi sono cambiate, alla fine la responsabilità della bonifica dei terreni al di fuori della proprietà del gruppo transalpino è finita in mano al Comune di Melfi, così come stabilito dalla nuova Aia licenziata dalla Giunta Pittella, che di fatto permette a Fenice di continuare a bruciare rifiuti.

E il consiglio di stato, in effetti, non smuove nulla e lascia tutto così come era. Il ricorso infatti è irricevibile, in quanto non c’è stata «l’erronea utilizzazione, come obiettivo della bonifica, del parametro delle concentrazioni di soglia di contaminazione invece di quello delle concentrazioni soglia di rischio». Fenice nel ricorso si sarebbe appellata ai parametri considerati che di fatto al tavolo tecnico avrebbero portato al respingimento del progetto di messa in sicurezza presentato da Fenice nel 2011 dove veniva anche ribadito l’obbligo di “adottare tutte le misure idonee a garantire il rispetto delle Csc delle acque sotterranee.

Ma a “vincere” non è neanche il Comune di Melfi che anzi incassa l’infondatezza in merito alle osservazioni sull’estensione dell’ubicazione dei punti di indagine anche al di fuori della proprietà in questione. Per il Consiglio di Stato non ci sarebbe ragione di andare a guardare anche su quei terreni “tenuto conto della fisiologica riduzione delle concentrazioni e della tempestiva eliminazione della causa della contaminazione”. Stesso vale per l’appello di contestazione sulla perimetrazione delle aree da bonificare in quanto “la Fenice ha dimostrato di aver individuato per ogni contaminante le relative aree di delimitazione suddivise per singolo acquifero”. E  infine respinta anche la contestazione sulla prescrizione che aveva imposto un’attività di monitoraggio delle acque in corrispondenza di tutti i punti disponibili a cadenza mensile. E anche in questo caso i giudici si rifanno alla relazione dell’ingegnere Di Molfetta, consulente tecnico di Fenice, che aveva stabilito la sufficienza delle attività di monitoraggio dei pozzi della barriera idraulica. Non c’è bisogno, quindi, di ulteriori ed “onerosi” interventi di questo tipo. Nessuna vittoria quindi, Fenice dovrà badare soltanto ai suoi terreni, monitorandoli come ha sempre fatto, senza interventi aggiunti, così come ribadito dal comune di Melfi.

v. panettieri@luedi.it

 

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