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CATANZARO – La sentenza è ancora una condanna. Pietro Mazzotta e Emanuele Caruso sono stati di nuovo ritenuti colpevoli della morte atroce inflitta al giovane Cristian Galati, picchiato brutalmente, preso a martellate, legato ad un albero e poi bruciato vivo a Curinga la notte del Capodanno 2009.

Dodici gli anni di reclusione inflitti a Mazzotta, accusato di aver “collaborato” all’uccisione, e 30 a Caruso. che avrebbe materialmente bruciato vivo il coetano, e che in fase di indagini confessò di essere l’autore del terribile delitto. I due giovani di Filadelfia, nel Vibonese, erano stati condannati una prima volta a 16 e 30 anni rispettivamente con rito abbreviato (il giudice in quella stessa udienza condannò i due a risarcire i danni alle parti civili, alle quali sono state riconosciute provvisionali per un totale di 280.000 euro, 70.000 euro ciascuno ai genitori della vittima e 35.000 euro a ciascuno dei fratelli). La corte d’Assise d’Appello il 5 aprile 2011, in parziale accoglimento delle richieste dei difensori dei due imputati ha assolto Mazzotta «per non aver commesso il fatto», ed ha escluso per Caruso l’aggravante della premeditazione, riconoscendo per lui le attenuanti generiche equivalenti alla seconda aggravante e dunque riducendo la pena a 15 anni di reclusione. Da qui, il ricorso della Procura in Cassazione che ha annullato la pronuncia di secondo grado rinviando gli atti a Catanzaro per un nuovo giudizio d’appello, quello arrivato oggi. 

Per lo stesso omicidio, a novembre scorso, i giudici della Corte d’assise d’appello hanno confermato la condanna di primo grado a 22 anni di reclusione per Santino Accetta, 33 anni, ritenuto responsabile del delitto. Che fosse così emerse nel corso del dibattimento, quando i carabinieri che per primi arrivarono in contrada Corda, al confine tra i Comuni di San Pietro a Maida e Curinga, raccontarono di quel giovane che alla domanda su chi lo avesse ridotto in quello stato fece il nome di «Emanuele Caruso» e di «un “certo” Santino». Raccontarono di quel ragazzo che invocava aiuto e che con un filo di voce, con quel po’ di forza che gli era rimasta, chiedeva di essere di essere salvato, prima di essere trasportato all’ospedale di Lamezia Terme e da qui al Centro grandi ustionati di Bari, dove poi morì dopo circa tre mesi dal ricovero. 

 

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