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di ANTONELLO GRASSI
“Dov’è la classe dirigente? Che fine ha fatto la borghesia? E che ne è delle famiglie che hanno fatto la storia di Matera? Dove sono i Ridola, i Gattini, i Duni, i Giura Longo, altrettanti nomi che oggi evocano storie irripetibili e a loro modo eroiche? Non c’è più niente, tutto finito”. 
Imponente come Nero Wolfe, voce da baritono quale si conviene a un principe del foro, Emilio Nicola Buccico mi riceve nel palazzo di famiglia che lui ha trasformato in uno studio legale e dal quale dirige le battaglie processuali di potenti ed ex potenti della regione. Un fortino dal quale Buccico, classe 1940,  ex sindaco, ex senatore, ex presidente nazionale del Consiglio forense, ex componente del Csm, osserva e giudica la città: di cui dice  di conoscere ogni pietra, e che costituisce l’oggetto perenne dei suoi studi (attuamente sta scrivendo quella che lui definisce una storia-antistoria di Matera).  “La città è a un bivio mortale – afferma -. E dire che la candidatura di Matera a capitale europea della cultura nel 2019, candidatura che io lanciai per scommessa quand’ero sindaco, sarebbe stata un’occasione per tentare di ricostruire un’egemonia culturale in città. Un’occasione che il comitato non ha voluto sfruttare, chiudendosi in una lettura parziale, miope, provinciale dell’evento. Sarebbe stato necessario  aprire un dibattito corale, ampio e profondo;  e mettere sul tavolo questioni radicali: che cosa sono i Sassi? qual è l’anima della città? Si sarebbe dovuta prospettare un’interpretazione, offrire una visione. Gli intellettuali? Non mancano, ma ognuno va ormai per la sua strada. E la classe di governo ha completamente abdicato al suo ruolo. Ecco perché ai tanti che mi chiamano perché mi impegni in politica rispondo: basta, quel tempo è finito e non torna. Pessimista? Certo. E da conservatore inveterato la penso come Gramsci che contro le sacrosante ragioni del pessimismo invocava l’ottimismo della volontà”.  
Buccico, qual è la prima cosa che le viene in mente, quando pensa a Matera?
L’umidità. Colpa del tufo,  l’elemento primordiale della nostra storia. La nostra è un’umidità genetica. La storia di Matera nasce il giorno in cui l’uomo comprende che questa natura è docile, si lascia addomesticare. La morbidità del tufo permette l’escavazione di gallerie, con la creazione di vani e cisterne, l’accumulo di detriti per la costruzione delle case. E’ così che nasce l’architettura spontanea dei Sassi.
E questo ne fa un caso unico?
No. Ciò che fa di Matera un caso straordinario è che questo è l’unico luogo al mondo in cui tu hai la percezione fisica, visiva di quello che è stato il cammino dell’uomo dagli inizi della sua storia a oggi. Se, scendendo per i Sassi, guardi di fronte, all’altro lato della gravina, hai lo spettacolo dei primi insediamenti primitivi e, insieme, la testimonianza viva di sistemi ancestrali,  tuttavia ingegnosissimi, per l’irrigimentazione naturale delle acque nei Sassi: una scoperta che si deve all’architetto Pietro Laureano, e che ci permise di ottenere l’iscrizione di Matera alla lista delle città-patrimonio dell’Unesco.
E’ per questo che Matera può aspirare a essere capitale europea della cultura nel 2019, no?
No, questo è soltanto un pezzo del caso Matera. Stanno sbagliando ad assecondare l’equazione Matera uguale Sassi. E’ un modo miope, suicida, di affrontare il tema della candidatura per il 2019. Al contrario il discorso andava coltivato in una prospettiva larga che coinvolgesse tutte le forze intellettuali della città. 
Mi sembra assai pessimista sul percorso di Matera 2019…
No, sono realista. Oggi Matera è una città sepolta; quelli ai quali assistiamo sono solo fuochi d’artificio: non porteranno a niente. Siamo destinati al fallimento totale. Lei per caso vede una strategia? No, c’è solo un susseguirsi di piccoli eventi ai quali viene apposto il timbro: Matera 2019. 
 
E invece che cosa si dovrebbe fare?
Matera 2019 doveva essere un’occasione per invertire una tendenza letale per la città: quella dello spezzettamento delle intelligenze e della diaspora dei cervelli, alla quale ormai assistiamo impotenti. Badi bene, io non parlo per me. E, soprattutto, non mi va di far polemiche con il Comitato di Matera 2019. Ma mi domando: è possibile intraprendere un’esperienza come questa senza farne un’occasione per tentare di riunificare la città intorno a un progetto? Eppure  intellettuali ne abbiamo ancora. 
A chi si riferisce?
Ai tanti, anche di diversa estrazione politica, che da anni sono impegnati in un prezioso lavoro di analisi storica e culturale della città: da Raffaello De Ruggeri a Giovanni Caserta, da Mimmo Calbi (che ha scritto un bellissimo libro, “Il pathos della lucanità”, presentato qualche mese fa a Palazzo Lanfranchi) ad Alfonso Pontelandolfi che conduce un prezioso studio sulla ricostruzione delle classi dirigenti a Matera, anche durante il fascismo…Ma ce ne sono anche altri. Andavano coinvolti tutti…
E invece?
Invece si preferisce assecondare una visione elementare, semplicistica della città. Si cerca di sfruttare l’onda lunga della riscoperta dei Sassi, ma in una chiave puramente turistica e spettacolare. Così si rischia di avallare una rappresentazione cartolinesca di Matera.  Ma poi, dico io: vi volevate giocare la carta turistica per dare qualche chance di ripresa alla nostra economia? Allora non ci si può limitare ad assecondare una microeconomia spontanea fatta di innumerevoli bar, ristorantini, bed and breakfast. 
E che cosa bisognava fare?
Occorreva, anche qui, darsi una strategia di lungo respiro. Organizzare pacchetti turistici in modo che chi viene a Matera si fermi per almeno tre giorni. Imparare dai vicini pugliesi. Se uno va a Castellana, che fa? Vede le grotte, vabbé. E poi? C’è un’organizzazione turistica che crea circuiti, tiene collegamenti, organizza trasferte in pullman (tant’è che molti visitatori arrivano a Matera da lì).  
Lei che avrebbe fatto?
Guardi che la candidatura di Matera 2019 l’ho lanciata io quand’ero sindaco. E la mia proposta partiva da un presupposto tutto diverso.  Prima di tutto si trattava di capire che cosa sono i Sassi. Per questo tentai di dar vita, insieme con il Consiglio Nazionale delle Ricerche, al Museo demoantropologico, e venne qui  l’allora vice presidente del Cnr, lo storico Roberto De Mattei. Ma poi quell’esperienza è stata lasciata morire…
Ma se non bisognava puntare tutto sul binomio Sassi-Matera che bisognava fare?
Occorreva allargare la prospettiva. Vede? Come dicevamo prima, i Sassi rappresentano l’orma dell’uomo, la traccia della sua apparizione e del suo cammino sul territorio. Ma c’è dell’altro. Noi materani non siamo lucani, siamo basilicatesi. E che cosa è la Basilicata? Se stiamo all’etimologia più semplice, Basilicata è “la terra dei re orientali”. Come dire che siamo una frontiera, la prima frontiera murgica per i popoli che vengono dall’est.  Dunque rappresentiamo il cammino dell’uomo nello spirito della grande accoglienza, della libertà, dell’accoglienza, della tolleranza.
E quindi?
Avremmo dovuto candidarci come capitale del Sud dell’Europa, e qualificarci come la terra sulla quale l’uomo ha cominciato a camminare, a organizzarsi e ad accogliere gli altri. Un messaggio di unità lanciato dai luoghi solcati, non per caso, da Federico II, l’imperatore che nei libri di storia è indicato come puer Apuliae, figlio della Puglia. Un messaggio nel quale avrebbe dovuto riconoscersi tutto il Mezzogiorno.  Occorreva stabilire legami che andassero oltre i confini di questa regione duale. Qui non si tratta di chiedere un contributo, faccio per dire, a Potenza o a Montescaglioso. La Basilicata non è la Lucania. Noi non abbiamo niente a che fare con l’alto potentino. D’altra parte, lo stesso poeta romano Orazio, che era di Venosa, non diceva di sè “anceps lucanus o appulus”? E cioè che era incerto se considerarsi lucano o appulo, pugliese? Se noi non avessimo guardato sempre, e naturalmente, verso la Puglia, come avremmo potuto essere la capitale di terra d’Otranto? 
Sì, ma sta parlando di secoli fa. Per un pezzo, e almeno fino all’unità d’Italia, il faro della Basilicata è stata Napoli, no?
Sì, ma si trattava di un rapporto necessario giustificato dal fatto che a Napoli c’era l’unica università del Sud. E fino all’inizio del secolo scorso anche noi eravamo “napoletani” nel senso che Giustino Fortunato dà a questo termine. Per lui erano napoletani patrioti e intellettuali della Rivoluzione del ’99 come Mario Pagano, che invece era nato a Brienza, in un’area certo anche geograficamente vicina a Napoli, o Domenico Cirillo che era molisano. Ma allora Napoli era davvero la capitale  culturale del Sud.  Poi, dai primi decenni del Novecento cambia tutto. 
Che cosa succede?
Cominciamo a guardare al versante adriatico: il che corrisponde, come le dicevo, alla nostra natura geografica e alla nostra storia. E questo accade con la nascita, nel 1930, dell’Università di Bari. Un ateneo che ha esercitato un ruolo decisivo nella formazione di molti di noi. Poi abbiamo assistito alla cosiddetta regionalizzazione delle università (con la polverizzazione  e l’appiattimento dei saperi) che ha avuto una funzione non secondaria nel collasso delle classi dirigenti meridionali, compresa la nostra.
Lei si è formato a Bari?
Sì, e sono stati anni fondamentali anche sotto il profilo politico e culturale. Pure mio padre, un uomo che ha avuto un ruolo decisivo per la mia formazione, aveva completato i suoi studi lontano da Napoli, essendosi laureato a Firenze prima di conseguire una seconda laurea a Bari. A Napoli, invece, aveva studiato mio nonno, tanto che tuttora esistono dei Buccico napoletani.  E un mio cugino, Luigi, è stato deputato socialista, sul finire degli anni Settanta, prima di finire ucciso per una storia passionale dal sapore ottocentesco. Per inciso, il ceppo napoletano della mia famiglia aveva solide radici socialiste, di un socialismo fortemente riformistico.
Che tuttavia non ha avuto alcuna influenza su di lei…
No, sono sempre stato un conservatore. Come mio padre, uomo di destra con un’impronta morale che gli derivava da un’educazione ancora influenzata dai miti risorgimentali. La mia destra, invece, si ispira a quella dei Cavour, dei Lanza, dei Quintino Sella: è la destra che, all’indomani dell’unità, costruì l’Italia, dando una lezione di serietà che è rimasta inascoltata.  
E che c’entra con il Msi, nel quale lei ha mosso i primi passi come politico?
Niente. Ma nel Msi, assieme ad alcuni amici, tentammo di portare una mentalità diversa. E anche in quel caso l’Università di Bari giocò un ruolo decisivo nel determinare le amicizie che mi avrebbero accompagnato in seguito. Come quella con Pinuccio Tatarella (oggi presiedo la Fondazione a lui intitolata). E con Mimmo Mennitti, che sarebbe diventato sindaco di Brindisi.  Per dire: sostenevamo che il fascismo avesse interrotto lo sviluppo naturale della destra in Italia. Ed eravamo filoisraeliani in un periodo in cui tutto il partito era fortemente filoarabo. (Certo, in me giocava il fatto che mio padre, che pure aveva aderito spontaneamente al fascismo, divenendo il segretario del Guf materano, se ne era poi allontanato ed era finito in un lager tedesco, il terribile campo polacco di Wizendorf, dove condivise la prigionia con personaggi come lo scrittore Giovannino Guareschi, il futuro segretario del Partito comunista Alessandro Natta, l’attore Gianrico Tedeschi,  lo psicologo Antonio Miotto). Insomma: con la tradizione nostalgica del Msi avevamo poco da spartire.  
E allora che ci faceva nel Msi?
Vede, quando sul finire degli anni 50,  io frequento il liceo Duni di Matera, che allora era a Palazzo Lanfranchi, per Matera è un momento molto particolare. La questione dei Sassi ormai è scoppiata.   La città è diventata un polo d’attrazione per intellettuali provenienti da ogni parte del mondo: economisti, urbanisti, sociologi. Per la città è un momento importante, creativo.   E mi trovo in quest’ambiente dominato da cattolici e comunisti. E’ un moto di ribellione, quasi una rivendicazione di indipendenza, trovarsi nelle file di un partito  come il Msi.   
Che  tipo di città era Matera, allora?
Una città fortemente impiegatizia. A determinare la crescita a dismisura di questa piccola borghesia in una città vissuta per millenni di agricoltura è stata l’istituzione nel 1926 della Provincia di Matera. La quale si porta dietro Prefettura, Questura, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato, Camera di commercio e così via. Un proliferare di enti e aziende di servizi che finirà per stravolgere la tradizionale composizione sociale della città. E tuttavia è una città viva, non solo perché, grazie ai Sassi, si trova al centro di un dibattito internazionale, ma perché vede l’emerge di forme originali e autonome di economia. Ci sono artigiani che si trasformano in imprenditori come quelli dell’argilla e della pasta. E nascono aziende di discrete dimensioni che occupano centiania di dipendenti. Il segno di una vitalità che con il tempo andrà perduta. E la cui lezione nessuno sarà in grado di raccogliere.
Abbiamo visto artigiani trasformarsi quasi naturalmente in imprenditori, assecondando la vocazione del territorio. Consideri il caso della pasta. Questi nuovi imprenditori sfruttavano i prodotti nostri, i grani duri  della Basilicata e , in particolare, della provincia di Matera. 
E che fine hanno fatto queste aziende?
 Tuttio declina a partire dagli anni ’70 con l’arrivo della chimica e l’industrializzazione della valle del Basento. Una novità che genera un  entusiasmo folle. Tutti vogliono lavorare in questo comparto. Nascono le grandi industrie, i mercati si aprono, e   le imprese di nicchia – come  quelle della pasta e del mattone – non riescono a reggere la concorrenza. E quando anche la chimica comincia a precipitare ecco il fenomeno imprevisto del divano in serie. A seguire l’esempio di Pasquale Natuzzi sono decine di artigiani. Quando tutto questo finisce sull’onda di una crisi mondiale e sotto la pressione delle economie emergenti, su Matera cala il buio.
Sta parlando di oggi…
Parlo di una città spenta sotto il profilo intellettuale e in agonia dal punto di vista produttivo. E di una classe dirigente di cui il meno che si può dire è che ha il respiro corto. Una città in cui è in atto una drammatica diaspora dei cervelli. Con un ceto impiegatizio ormai invasivo, e una disoccupazione dilagante, la città ha visto spegnersi a poco a poco tutte le sue preziose attività artigianali. E quei pochi che resistono, faticano a uscire da una dimensione produttiva di pura sussistenza. E, ciò che è più grave, tutto questo accade in assenza di una classe dirigente. 
Perché? Che fine ha fatto?
Vede, a Matera, nel corso del Novecento, abbiamo avuto una grande classe dirigente, una vera borghesia. La quale mandava i figli a studiare a Bologna, a Napoli, a Lipsia,  Vienna.  E quest, una volta tornati mettevano a frutto le esperienze e le relazioni culturali maturate nel mondo. Pensi a Ridola, per stare al caso più noto, al suo museo, alla sua storia di grande collezionista, ma prima ancora di studioso di medicina, storia, archeologia; e consideri che il frutto di una vita di studi è oggi un patrimonio cittadino. Tutto questo si è perso., 

“Dov’è la classe dirigente? Che fine ha fatto la borghesia? E che ne è delle famiglie che hanno fatto la storia di Matera? Dove sono i Ridola, i Gattini, i Duni, i Giura Longo, altrettanti nomi che oggi evocano storie irripetibili e a loro modo eroiche? Non c’è più niente, tutto finito”.

 

Imponente come Nero Wolfe, voce da baritono quale si conviene a un principe del foro, Emilio Nicola Buccico mi riceve nel palazzo di famiglia che lui ha trasformato in uno studio legale e dal quale dirige le battaglie processuali di potenti ed ex potenti della regione. Un fortino dal quale Buccico, classe 1940,  ex sindaco, ex senatore, ex presidente nazionale del Consiglio forense, ex componente del Csm, osserva e giudica la città: di cui dice  di conoscere ogni pietra, e che costituisce l’oggetto perenne dei suoi studi (attuamente sta scrivendo quella che lui definisce una storia-antistoria di Matera).  

“La città è a un bivio mortale – afferma -. E dire che la candidatura di Matera a capitale europea della cultura nel 2019, candidatura che io lanciai per scommessa quand’ero sindaco, sarebbe stata un’occasione per tentare di ricostruire un’egemonia culturale in città. Un’occasione che il comitato non ha voluto sfruttare, chiudendosi in una lettura parziale, miope, provinciale dell’evento. 

Sarebbe stato necessario  aprire un dibattito corale, ampio e profondo;  e mettere sul tavolo questioni radicali: che cosa sono i Sassi? qual è l’anima della città? Si sarebbe dovuta prospettare un’interpretazione, offrire una visione. Gli intellettuali? Non mancano, ma ognuno va ormai per la sua strada. E la classe di governo ha completamente abdicato al suo ruolo. 

Ecco perché ai tanti che mi chiamano perché mi impegni in politica rispondo: basta, quel tempo è finito e non torna. Pessimista? Certo. E da conservatore inveterato la penso come Gramsci che contro le sacrosante ragioni del pessimismo invocava l’ottimismo della volontà”.  
Buccico, qual è la prima cosa che le viene in mente, quando pensa a Matera?L’umidità. 

Colpa del tufo,  l’elemento primordiale della nostra storia. La nostra è un’umidità genetica. La storia di Matera nasce il giorno in cui l’uomo comprende che questa natura è docile, si lascia addomesticare. La morbidità del tufo permette l’escavazione di gallerie, con la creazione di vani e cisterne, l’accumulo di detriti per la costruzione delle case. E’ così che nasce l’architettura spontanea dei Sassi.
E questo ne fa un caso unico?No. Ciò che fa di Matera un caso straordinario è che questo è l’unico luogo al mondo in cui tu hai la percezione fisica, visiva di quello che è stato il cammino dell’uomo dagli inizi della sua storia a oggi. 

Se, scendendo per i Sassi, guardi di fronte, all’altro lato della gravina, hai lo spettacolo dei primi insediamenti primitivi e, insieme, la testimonianza viva di sistemi ancestrali,  tuttavia ingegnosissimi, per l’irrigimentazione naturale delle acque nei Sassi: una scoperta che si deve all’architetto Pietro Laureano, e che ci permise di ottenere l’iscrizione di Matera alla lista delle città-patrimonio dell’Unesco.
E’ per questo che Matera può aspirare a essere capitale europea della cultura nel 2019, no?No, questo è soltanto un pezzo del caso Matera. Stanno sbagliando ad assecondare l’equazione Matera uguale Sassi. E’ un modo miope, suicida, di affrontare il tema della candidatura per il 2019. Al contrario il discorso andava coltivato in una prospettiva larga che coinvolgesse tutte le forze intellettuali della città. 
Mi sembra assai pessimista sul percorso di Matera 2019…No, sono realista. Oggi Matera è una città sepolta; quelli ai quali assistiamo sono solo fuochi d’artificio: non porteranno a niente. Siamo destinati al fallimento totale. Lei per caso vede una strategia? No, c’è solo un susseguirsi di piccoli eventi ai quali viene apposto il timbro: Matera 2019.  E invece che cosa si dovrebbe fare?Matera 2019 doveva essere un’occasione per invertire una tendenza letale per la città: quella dello spezzettamento delle intelligenze e della diaspora dei cervelli, alla quale ormai assistiamo impotenti. Badi bene, io non parlo per me. E, soprattutto, non mi va di far polemiche con il Comitato di Matera 2019. Ma mi domando: è possibile intraprendere un’esperienza come questa senza farne un’occasione per tentare di riunificare la città intorno a un progetto? Eppure  intellettuali ne abbiamo ancora. 
A chi si riferisce?Ai tanti, anche di diversa estrazione politica, che da anni sono impegnati in un prezioso lavoro di analisi storica e culturale della città: da Raffaello De Ruggeri a Giovanni Caserta, da Mimmo Calbi (che ha scritto un bellissimo libro, “Il pathos della lucanità”, presentato qualche mese fa a Palazzo Lanfranchi) ad Alfonso Pontelandolfi che conduce un prezioso studio sulla ricostruzione delle classi dirigenti a Matera, anche durante il fascismo…Ma ce ne sono anche altri. Andavano coinvolti tutti…
E invece?Invece si preferisce assecondare una visione elementare, semplicistica della città. Si cerca di sfruttare l’onda lunga della riscoperta dei Sassi, ma in una chiave puramente turistica e spettacolare. Così si rischia di avallare una rappresentazione cartolinesca di Matera.  Ma poi, dico io: vi volevate giocare la carta turistica per dare qualche chance di ripresa alla nostra economia? Allora non ci si può limitare ad assecondare una microeconomia spontanea fatta di innumerevoli bar, ristorantini, bed and breakfast. 
E che cosa bisognava fare?Occorreva, anche qui, darsi una strategia di lungo respiro. Organizzare pacchetti turistici in modo che chi viene a Matera si fermi per almeno tre giorni. Imparare dai vicini pugliesi. Se uno va a Castellana, che fa? Vede le grotte, vabbé. E poi? C’è un’organizzazione turistica che crea circuiti, tiene collegamenti, organizza trasferte in pullman (tant’è che molti visitatori arrivano a Matera da lì).  
Lei che avrebbe fatto?Guardi che la candidatura di Matera 2019 l’ho lanciata io quand’ero sindaco. E la mia proposta partiva da un presupposto tutto diverso.  Prima di tutto si trattava di capire che cosa sono i Sassi. Per questo tentai di dar vita, insieme con il Consiglio Nazionale delle Ricerche, al Museo demoantropologico, e venne qui  l’allora vice presidente del Cnr, lo storico Roberto De Mattei. Ma poi quell’esperienza è stata lasciata morire…
Ma se non bisognava puntare tutto sul binomio Sassi-Matera che bisognava fare?Occorreva allargare la prospettiva. Vede? Come dicevamo prima, i Sassi rappresentano l’orma dell’uomo, la traccia della sua apparizione e del suo cammino sul territorio. Ma c’è dell’altro. Noi materani non siamo lucani, siamo basilicatesi. E che cosa è la Basilicata? Se stiamo all’etimologia più semplice, Basilicata è “la terra dei re orientali”. Come dire che siamo una frontiera, la prima frontiera murgica per i popoli che vengono dall’est.  Dunque rappresentiamo il cammino dell’uomo nello spirito della grande accoglienza, della libertà, dell’accoglienza, della tolleranza.
E quindi?Avremmo dovuto candidarci come capitale del Sud dell’Europa, e qualificarci come la terra sulla quale l’uomo ha cominciato a camminare, a organizzarsi e ad accogliere gli altri. Un messaggio di unità lanciato dai luoghi solcati, non per caso, da Federico II, l’imperatore che nei libri di storia è indicato come puer Apuliae, figlio della Puglia. Un messaggio nel quale avrebbe dovuto riconoscersi tutto il Mezzogiorno.  Occorreva stabilire legami che andassero oltre i confini di questa regione duale. Qui non si tratta di chiedere un contributo, faccio per dire, a Potenza o a Montescaglioso. La Basilicata non è la Lucania. Noi non abbiamo niente a che fare con l’alto potentino. D’altra parte, lo stesso poeta romano Orazio, che era di Venosa, non diceva di sè “anceps lucanus o appulus”? E cioè che era incerto se considerarsi lucano o appulo, pugliese? Se noi non avessimo guardato sempre, e naturalmente, verso la Puglia, come avremmo potuto essere la capitale di terra d’Otranto? 
Sì, ma sta parlando di secoli fa. Per un pezzo, e almeno fino all’unità d’Italia, il faro della Basilicata è stata Napoli, no?Sì, ma si trattava di un rapporto necessario giustificato dal fatto che a Napoli c’era l’unica università del Sud. E fino all’inizio del secolo scorso anche noi eravamo “napoletani” nel senso che Giustino Fortunato dà a questo termine. Per lui erano napoletani patrioti e intellettuali della Rivoluzione del ’99 come Mario Pagano, che invece era nato a Brienza, in un’area certo anche geograficamente vicina a Napoli, o Domenico Cirillo che era molisano. Ma allora Napoli era davvero la capitale  culturale del Sud.  Poi, dai primi decenni del Novecento cambia tutto. 
Che cosa succede?Cominciamo a guardare al versante adriatico: il che corrisponde, come le dicevo, alla nostra natura geografica e alla nostra storia. E questo accade con la nascita, nel 1930, dell’Università di Bari. Un ateneo che ha esercitato un ruolo decisivo nella formazione di molti di noi. Poi abbiamo assistito alla cosiddetta regionalizzazione delle università (con la polverizzazione  e l’appiattimento dei saperi) che ha avuto una funzione non secondaria nel collasso delle classi dirigenti meridionali, compresa la nostra.
Lei si è formato a Bari?Sì, e sono stati anni fondamentali anche sotto il profilo politico e culturale. Pure mio padre, un uomo che ha avuto un ruolo decisivo per la mia formazione, aveva completato i suoi studi lontano da Napoli, essendosi laureato a Firenze prima di conseguire una seconda laurea a Bari. A Napoli, invece, aveva studiato mio nonno, tanto che tuttora esistono dei Buccico napoletani.  E un mio cugino, Luigi, è stato deputato socialista, sul finire degli anni Settanta, prima di finire ucciso per una storia passionale dal sapore ottocentesco. Per inciso, il ceppo napoletano della mia famiglia aveva solide radici socialiste, di un socialismo fortemente riformistico.
Che tuttavia non ha avuto alcuna influenza su di lei…No, sono sempre stato un conservatore. Come mio padre, uomo di destra con un’impronta morale che gli derivava da un’educazione ancora influenzata dai miti risorgimentali. La mia destra, invece, si ispira a quella dei Cavour, dei Lanza, dei Quintino Sella: è la destra che, all’indomani dell’unità, costruì l’Italia, dando una lezione di serietà che è rimasta inascoltata.  
E che c’entra con il Msi, nel quale lei ha mosso i primi passi come politico?Niente. Ma nel Msi, assieme ad alcuni amici, tentammo di portare una mentalità diversa. E anche in quel caso l’Università di Bari giocò un ruolo decisivo nel determinare le amicizie che mi avrebbero accompagnato in seguito. Come quella con Pinuccio Tatarella (oggi presiedo la Fondazione a lui intitolata). E con Mimmo Mennitti, che sarebbe diventato sindaco di Brindisi.  Per dire: sostenevamo che il fascismo avesse interrotto lo sviluppo naturale della destra in Italia. Ed eravamo filoisraeliani in un periodo in cui tutto il partito era fortemente filoarabo. (Certo, in me giocava il fatto che mio padre, che pure aveva aderito spontaneamente al fascismo, divenendo il segretario del Guf materano, se ne era poi allontanato ed era finito in un lager tedesco, il terribile campo polacco di Wizendorf, dove condivise la prigionia con personaggi come lo scrittore Giovannino Guareschi, il futuro segretario del Partito comunista Alessandro Natta, l’attore Gianrico Tedeschi,  lo psicologo Antonio Miotto). Insomma: con la tradizione nostalgica del Msi avevamo poco da spartire.  
E allora che ci faceva nel Msi?Vede, quando sul finire degli anni 50,  io frequento il liceo Duni di Matera, che allora era a Palazzo Lanfranchi, per Matera è un momento molto particolare. La questione dei Sassi ormai è scoppiata.   La città è diventata un polo d’attrazione per intellettuali provenienti da ogni parte del mondo: economisti, urbanisti, sociologi. Per la città è un momento importante, creativo.   E mi trovo in quest’ambiente dominato da cattolici e comunisti. E’ un moto di ribellione, quasi una rivendicazione di indipendenza, trovarsi nelle file di un partito  come il Msi.   
Che  tipo di città era Matera, allora?Una città fortemente impiegatizia. A determinare la crescita a dismisura di questa piccola borghesia in una città vissuta per millenni di agricoltura è stata l’istituzione nel 1926 della Provincia di Matera. La quale si porta dietro Prefettura, Questura, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato, Camera di commercio e così via. Un proliferare di enti e aziende di servizi che finirà per stravolgere la tradizionale composizione sociale della città. E tuttavia è una città viva, non solo perché, grazie ai Sassi, si trova al centro di un dibattito internazionale, ma perché vede l’emerge di forme originali e autonome di economia. Ci sono artigiani che si trasformano in imprenditori come quelli dell’argilla e della pasta. E nascono aziende di discrete dimensioni che occupano centiania di dipendenti. Il segno di una vitalità che con il tempo andrà perduta. E la cui lezione nessuno sarà in grado di raccogliere.Abbiamo visto artigiani trasformarsi quasi naturalmente in imprenditori, assecondando la vocazione del territorio. Consideri il caso della pasta. Questi nuovi imprenditori sfruttavano i prodotti nostri, i grani duri  della Basilicata e , in particolare, della provincia di Matera. 
E che fine hanno fatto queste aziende? Tuttio declina a partire dagli anni ’70 con l’arrivo della chimica e l’industrializzazione della valle del Basento. Una novità che genera un  entusiasmo folle. Tutti vogliono lavorare in questo comparto. Nascono le grandi industrie, i mercati si aprono, e   le imprese di nicchia – come  quelle della pasta e del mattone – non riescono a reggere la concorrenza. E quando anche la chimica comincia a precipitare ecco il fenomeno imprevisto del divano in serie. A seguire l’esempio di Pasquale Natuzzi sono decine di artigiani. Quando tutto questo finisce sull’onda di una crisi mondiale e sotto la pressione delle economie emergenti, su Matera cala il buio.
Sta parlando di oggi…Parlo di una città spenta sotto il profilo intellettuale e in agonia dal punto di vista produttivo. E di una classe dirigente di cui il meno che si può dire è che ha il respiro corto. Una città in cui è in atto una drammatica diaspora dei cervelli. Con un ceto impiegatizio ormai invasivo, e una disoccupazione dilagante, la città ha visto spegnersi a poco a poco tutte le sue preziose attività artigianali. E quei pochi che resistono, faticano a uscire da una dimensione produttiva di pura sussistenza. E, ciò che è più grave, tutto questo accade in assenza di una classe dirigente. 
Perché? Che fine ha fatto?Vede, a Matera, nel corso del Novecento, abbiamo avuto una grande classe dirigente, una vera borghesia. La quale mandava i figli a studiare a Bologna, a Napoli, a Lipsia,  Vienna.  E quest, una volta tornati mettevano a frutto le esperienze e le relazioni culturali maturate nel mondo. Pensi a Ridola, per stare al caso più noto, al suo museo, alla sua storia di grande collezionista, ma prima ancora di studioso di medicina, storia, archeologia; e consideri che il frutto di una vita di studi è oggi un patrimonio cittadino. Tutto questo si è perso., 

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