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di GIUSEPPE BALDESSARRO
Scilla –  Qualcuno gli stringe la mano quando li incontra per strada o al bar, altri sussurrano loro qualche frase, e c’è anche chi ha alzato il telefono e chiamato direttamente in caserma. Gli scillesi hanno ringraziato i carabinieri per averli liberati da quel “cancro”. E non sono stati pochi. Anzi. “Pronto?”, “Si, stazione dei carabinieri, mi dica”, “No niente, sono un cittadino di Scilla, volevo solo ringraziarvi”, “Ringraziarci?”, “Si, ringraziarvi, perchè finalmente ci avete liberati da questi mascalzoni dei Nasone e dei Gaietti, volevo solo dirvelo”, “Signore, abbiamo fatto il nostro dovere, comunque riferirò…”. “Eh, si riferisca…. e grazie ancora”. 
Le prime al centralino di Scilla e alla compagnia di Villa San Giovanni sono arrivate il giorno successivo alla sentenza di primo grado emessa il 9 ottobre scorso, quando il Gup Massimo Minniti ha inflitto condanne fino a 18 anni di reclusione ai diversi componenti della ‘ndrina. Una giornata vissuta evidentemente come una vera e propria liberazione. Fino allora nella cittadina dello Stretto c’era stata una certa apprensione, si stava con il fiato sospeso per il timore che qualcosa potesse andare storto o che un cavillo li potesse far tornare in libertà. Tutto è invece andato che speravano in molti e come auspicava la Procura della Repubblica. E ora nessuno ha dubbi: “Li hanno spianati”. Cancellati, sepolti sotto una marea di anni di galera, dopo che per anni erano stati loro a soffocare la “perla” della costa tirrenica reggina. Un clan “odioso”. Dalle carte dell’inchiesta che ha poi portato alle condanne si legge di una cosca composta essenzialmente da due famiglie legate tra di loro che strangolavano l’economia locale. Non solo le grandi aziende come quelle che lavoravano sull’A3, ma anche i piccoli artigiani che vivono alla giornata sentivano il fiato della ‘ndrangheta sul collo. Violenti, aggressivi, facili a menar le mani e ancora di più avvezzi a metter mano all’accendino per dar fuoco a macchine, mezzi da lavoro, negozi. 
Loro non chiedevano la tangente, pretendevano che gli venisse portata fino a casa. Ad un imprenditore siciliano – che aveva vinto l’appalto per fissare le reti anti caduta massi sulle pareti della statale 18 –  prima gli devastarono l’attrezzatura per poi pretendere la messa a posto e la consegna di 6 mila euro. “Ma che bisogno c’era di farmi i danni prima ancora di chiedermi i soldi?”. “E voi non lo sapevate che questa è casa nostra?”. L’imprenditore ha denunciato e Giuseppe Fulco lo hanno beccato con i soldi in tasca. Sempre gli stessi distrussero il camioncino di un ambulante che aveva come unica colpa quella di sperare di vendere qualche panino sul lungomare senza pagare loro. Violenti, arroganti e spavaldi, erano praticamente degli specialisti del porta a porta. Chiedevano i soldi a tutti: “A Scilla ci siamo noi”, punto. Non c’è negoziante, imprenditore, ambulante, gelataio o ristoratore, che possa dire di non aver avuto seccature da loro. Una sorta di banda di “sporchi e cattivi” che ammorbavano la città, al punto che persino chi non aveva interessi particolari veniva infastidito. Negli ultimi due anni qualcosa è però cambiato. Sono arrivate le denunce degli imprenditori vessati, le testimonianze, e di conseguenza le inchieste e le condanne. Il clan è stato azzerato grazie a chi ha deciso di ribellarsi, alle forze dell’ordine e alla magistratura. Lo Stato appunto. Quello stesso Stato che ora si vede stringere la mano dalla gente. Che riceve telefonate di congratulazioni, che è accolto. Ora Scilla inizia a crederci, inizia a respirare l’aria buona della libertà. Non che i problemi siano stati tutti risolti, ma un primo passo importante è stato fatto. E’ stato aperto un varco, tracciata una strada. I carabinieri continueranno a presidiarla, ma chi deve tenerla pulita e sgombera dalla “monnezza” sono i cittadini. “Comandante prendetevi il caffè, ci fa piacere offrilo a voi e vostri ragazzi”, per una volta un caffè si può accettare.  

SCILLA –  Qualcuno gli stringe la mano quando li incontra per strada o al bar, altri sussurrano loro qualche frase, e c’è anche chi ha alzato il telefono e chiamato direttamente in caserma. Gli scillesi hanno ringraziato i carabinieri per averli liberati da quel “cancro”. E non sono stati pochi. Anzi. 

“Pronto?”, 
“Si, stazione dei carabinieri, mi dica”, 
“No niente, sono un cittadino di Scilla, volevo solo ringraziarvi”, 
“Ringraziarci?”, 
“Si, ringraziarvi, perchè finalmente ci avete liberati da questi mascalzoni dei Nasone e dei Gaietti, volevo solo dirvelo”, 
“Signore, abbiamo fatto il nostro dovere, comunque riferirò…”. 
“Eh, si riferisca…. e grazie ancora”. 
Le prime al centralino di Scilla e alla compagnia di Villa San Giovanni sono arrivate il giorno successivo alla sentenza di primo grado emessa il 9 ottobre scorso, quando il Gup Massimo Minniti ha inflitto condanne fino a 18 anni di reclusione ai diversi componenti della ‘ndrina. Una giornata vissuta evidentemente come una vera e propria liberazione. Fino allora nella cittadina dello Stretto c’era stata una certa apprensione, si stava con il fiato sospeso per il timore che qualcosa potesse andare storto o che un cavillo li potesse far tornare in libertà. Tutto è invece andato che speravano in molti e come auspicava la Procura della Repubblica. E ora nessuno ha dubbi: “Li hanno spianati”. Cancellati, sepolti sotto una marea di anni di galera, dopo che per anni erano stati loro a soffocare la “perla” della costa tirrenica reggina. Un clan “odioso”. 
Dalle carte dell’inchiesta che ha poi portato alle condanne si legge di una cosca composta essenzialmente da due famiglie legate tra di loro che strangolavano l’economia locale. Non solo le grandi aziende come quelle che lavoravano sull’A3, ma anche i piccoli artigiani che vivono alla giornata sentivano il fiato della ‘ndrangheta sul collo. Violenti, aggressivi, facili a menar le mani e ancora di più avvezzi a metter mano all’accendino per dar fuoco a macchine, mezzi da lavoro, negozi. Loro non chiedevano la tangente, pretendevano che gli venisse portata fino a casa. 
Ad un imprenditore siciliano – che aveva vinto l’appalto per fissare le reti anti caduta massi sulle pareti della statale 18 –  prima gli devastarono l’attrezzatura per poi pretendere la messa a posto e la consegna di 6 mila euro. 
«Ma che bisogno c’era di farmi i danni prima ancora di chiedermi i soldi?». «E voi non lo sapevate che questa è casa nostra?». L’imprenditore ha denunciato e Giuseppe Fulco lo hanno beccato con i soldi in tasca. Sempre gli stessi distrussero il camioncino di un ambulante che aveva come unica colpa quella di sperare di vendere qualche panino sul lungomare senza pagare loro. Violenti, arroganti e spavaldi, erano praticamente degli specialisti del porta a porta. Chiedevano i soldi a tutti: “A Scilla ci siamo noi”, punto. Non c’è negoziante, imprenditore, ambulante, gelataio o ristoratore, che possa dire di non aver avuto seccature da loro. Una sorta di banda di “sporchi e cattivi” che ammorbavano la città, al punto che persino chi non aveva interessi particolari veniva infastidito. Negli ultimi due anni qualcosa è però cambiato. Sono arrivate le denunce degli imprenditori vessati, le testimonianze, e di conseguenza le inchieste e le condanne. Il clan è stato azzerato grazie a chi ha deciso di ribellarsi, alle forze dell’ordine e alla magistratura. Lo Stato appunto. Quello stesso Stato che ora si vede stringere la mano dalla gente. Che riceve telefonate di congratulazioni, che è accolto. Ora Scilla inizia a crederci, inizia a respirare l’aria buona della libertà. Non che i problemi siano stati tutti risolti, ma un primo passo importante è stato fatto. E’ stato aperto un varco, tracciata una strada. I carabinieri continueranno a presidiarla, ma chi deve tenerla pulita e sgombera dalla “monnezza” sono i cittadini. “Comandante prendetevi il caffè, ci fa piacere offrilo a voi e vostri ragazzi”, per una volta un caffè si può accettare.  
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