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ci conosciamo gia’ da oggici frequenteremo di più 
di LUCIA SERINO
Ebbi paura. Ora lo ricordo. Svanivano le certezze rassicuranti di quel ticchettio che a volte si arrestava per l’accavallamento dei caratteri. I nostri iphone ce l’hanno restituito, goffamente, stessa musica ma lineare, mai imperfetta. «Il fatto», gridava Orazio Mazzoni. «Il fatto e l’antefatto» aggiungeva Ennio Simeone». Un democristiano e un comunista. Insieme per una sfida impossibile: aprire a Salerno un quotidiano che si chiamava “Il giornale di Napoli”. Ebbero ragione, perché quei fatti che pretesero che noi scrivessimo erano nient’altro che storie di uomini e donne che nessuno più raccontava. Non più il Roma, naufragato con le navi del Comandante, dove pure sarei… 
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 Ebbi paura. Ora lo ricordo. Svanivano le certezze rassicuranti di quel ticchettio che a volte si arrestava per l’accavallamento dei caratteri. I nostri iphone ce l’hanno restituito, goffamente, stessa musica ma lineare, mai imperfetta. «Il fatto», gridava Orazio Mazzoni. «Il fatto e l’antefatto» aggiungeva Ennio Simeone». Un democristiano e un comunista. Insieme per una sfida impossibile: aprire a Salerno un quotidiano che si chiamava “Il giornale di Napoli”. Ebbero ragione, perché quei fatti che pretesero che noi scrivessimo erano nient’altro che storie di uomini e donne che nessuno più raccontava. Non più il Roma, naufragato con le navi del Comandante, dove pure sarei approdata per vederne ancora una volta la chiusura per un’inchiesta di camorra; non certo il Mattino, imbrigliato nelle logiche politiche e nelle spartizioni del Banco di Napoli. Serviva un giornale che facesse quello che devono fare i giornali: scrivere i fatti. Cambiò tutto, i caratteri non si sarebbero più accavallati, li avremmo magicamente cancellati non con una X ma con un cursore, cambiò soprattutto il pensiero e la mente di chi non avrebbe più sentito quello stridulo dolcissimo ticchettio e di lì a poco avrebbe preteso schermi per monitor giganteschi e troppo luminosi. Assumo la direzione del Quotidiano della Basilicata esattamente trent’anni dopo l’Olivetti di mio padre. La libertà con la quale ci avviammo si era persa dietro i sogni di gloria e le tangenti socialiste. Quella stessa libertà l’avrei ritrovata più a Sud, quando confondendo Cosenza con Potenza (era destino) feci la valigia e partii. Ero convinta di svoltare a Sicignano, oltrepassai il Pollino. Il Mezzogiorno per me è stata un’occasione. Se dovessi dire cos’è per me la Basilicata risponderei che è la sintesi e l’incrocio, esistenziale e professionale, di questa storia che arriva ad oggi. In diciotto anni da caporedattore nei giornali del gruppo Dodaro, l’editore mi ha telefonato per sollecitarmi una notizia una sola volta, un compleanno nel taccuino. Eppure oggi un discorso sulla libertà sarebbe troppo scontato e persino retorico, ora che la democrazia dilatata del sistema dell’informazione nulla copre e tutto divulga. Le visioni epocali e la drammatizzazione delle trasformazioni le vivo con la tranquilla consapevolezza dell’ineluttabilità degli eventi. Un giornale è però parte di un determinismo perché ha il compito non solo di raccontarlo ma anche di far capire che i rivoli dispersi del fiume della modernità sono inghiottiti dalla terra. Ho la fortuna di prendere in mano la guida di un giornale che ha saputo essere sovversivo. Dovrò guidarlo ora che i display sono moltiplicati all’infinito e la storia del nostro mezzogiorno espelle gli avanzi di un’abbuffata indigesta. Apro la mia posta e trovo un messaggio in cui mi si chiede di continuare ad impegnarmi nella “lettura critica dei tenaci continuismi e dei cambiamenti faticosi di questo pezzo di mezzogiorno interno, dove piccoli numeri e relazioni cortissime rendono il discorso pubblico molto simile a quel “ronzio di un’ape dentro un bugno vuoto”, evocato dal poeta. Non potrei e non saprei fare alto, caro lettore. Sono minimalista, essenziale, poco figurativa e la mia specialità è scorticare i fatti, capirli fino in fondo. Spiegarli, se è possibile, perchè spesso le condotte sono banalmente frutto di una umana prevedibilità. Cercheremo il filo delle nostre nuove discussioni, mi troverete al mio posto, come sempre da sei anni, porta aperta e numero di telefono a tutti come mi hanno insegnato, mai l’ultima parola perché sarebbe un’arroganza inutile e un affronto all’idea stessa di servizio che un piccolo giornale deve svolgere in una piccola comunità. Non avrò l’ultima parola, ma userò parole chiare, questo sì. Contorsioni lessicali e mentali non mi appartengono, errori sì, fanno parte del gioco. Mi appresto a preparare un piano editoriale che è compito di una nuova direzione. I lettori sapranno e diranno, passo dopo passo, perché sono parte integrante e non passiva di questo progetto. Altri progetti sarà l’editore a comunicarli. Ma so che c’è una sola ossessione, il Sud. Come parte di un tutto. Passo velocemente, com’è nel mio stile, ai ringraziamenti perché mi serve ancora un po’ di spazio per un pensiero finale. Il mio grazie innanzitutto all’editore, il presidente della Luedi, Francesco Dodaro, e l’ammnistratore delegato, Antonella Dodaro, per la fiducia nella mia autonomia: è il regalo più grande di queste ore. Ringrazio il direttore del giornale madre, Matteo Cosenza, per le parole di incoraggiamento, Pantaleone Sergi, che i lucani conoscono, perché è con lui che è partita questa storia. La mia redazione fa parte del “gioco sporco”, sono tutt’uno con me e all’inizio di un cammino si dice “forza”, non grazie. Sanno che non nascondo nulla. Ringrazio il mio predecessore, Paride Leporace, capace di grandi visioni: a lui, collettivista e comunitario per natura e vocazione, vorrei dire che l’autoreferenzialità che predica come cammino della modernità non è nient’altro che la teoria del vecchio individualismo solitario che s’incrocia col destino degli altri senza mai confodersi. Si marcia insieme, c’è chi scatta e chi mantiene il passo. Si può tendere la mano, questo sì. E’ questo uno dei compiti della politica. Una società giusta e meritocratica riconosce che non siamo tutti uguali, che l’imperativo della Storia fa soccombere, che occorre misurarsi con le nuove opportunità che devono essere create: lavoratori del Copes siete proprio sicuri di essere sulla strada giusta? E chiariamoci subito, perché legittimamente c’è anche chi oggi mi invia messaggi di auguri aggiungendo perplessità su troppe commistioni. Di cinema non mi intendo. E sono troppo laica e disincantata per offrire copioni alle marionette del potere. La mia parte è accogliere i fatti. Infine. Infine e ora, credetemi, veramente mi commuovo. Loro, noi. Le donne. Potrei mettere il punto qui perché capirebbero. Potrei aggiungere: venite, so che lo faranno. Potrei gridare: aiutatemi, so che non si sottrarranno. Potrei dire: capitemi, so che intuiranno. Da ragazza feci innervosire la potente e ricca segretaria del movimento femminile repubblicano di Salerno, Annamaria Pizzolla D’Amato, dicendo che non credevo nella distinzione tra uomini e donne. Occorre tempo per capire. E ho capito anch’io. Mi sono spesso schierata contro le donne della politica lucana, perché ritengo che perpetuino comportamenti e linguaggi maschili. Non serve uno psicanalista per convincersi che essere se stessi è un valore. Questa sfida è anche la vostra. Sdrammatizzo e alleggerisco come farei con uno “scale nobili”: ora che ci sono due donne a guidare le Procure lucane, una donna all’Acquedotto, una donna alla direzione di un giornale, completiamo lo scacchiere, Vito fatti più in là. 

 

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