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REGGIO CALABRIA – Il 19 marzo scorso la Prima commissione del Csm, ha chiesto il suo trasferimento per «i suoi contatti al di fuori dei doveri d’ufficio». Contatti che hanno «appannato l’immagine d’imparzialità», che un magistrato deve avere. Ora, la proposta che riguarda il futuro professionale di Alberto Cisterna, procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia, dovrà essere votata dal plenum del Consiglio superiore della magistratura, chiamato a valutare l’istruttoria della Commissione. 

La proposta di trasferimento è la conseguenza dei rapporti tra Cisterna e Luciano Lo Giudice, boss dell’omonimo clan reggino. La denuncia al Consiglio superiore della magistratura era scaturita dall’indagine della Dda di Reggio Calabria che, in sede penale, accusa Cisterna di corruzione in atti giudiziari. All’origine di tutto ci sono le dichiarazioni del boss pentito Antonino Lo Giudice, noto per essersi autoaccusato degli attentati del 2010 alla Procura generale di Reggio Calabria, al Procuratore generale Salvatore Di Landro e al Procuratore Giuseppe Pignatone.

Nino Lo Giudice, detto “il nano”, aveva raccontato dei rapporti tra Alberto Cisterna e suo fratello Luciano. Contatti che il magistrato non ha mai negato indicando Luciano Lo Giudice come fonte confidenziale.

Ed ecco, nelle inedite motivazioni della richiesta di trasferimento, quanto dice la Commissione.

La genesi dei contatti intercorsi con Luciano Lo Giudice

«Il dottor Cisterna ha riferito che intorno al 2004 ebbe la necessità di eseguire piccoli lavori di rimessaggio su un gommone acquistato nel 2002. Le Forze di polizia gli indicarono il cantiere di Antonino Spanò quale l’unico presente in città esente da sospetti di contiguità con ambienti criminali, al punto che proprio all’interno di quel cantiere venivano allocate non solo le imbarcazioni delle stesse Forze di polizia per lavori di manutenzione, ma vi si trovavano anche quelle di altri magistrati e di esponenti delle medesime forze dell’ordine. In occasione di una breve visita al cantiere – a suo dire avvenuta non da solo, ma alla presenza del personale dei Carabinieri di tutela e dell’autista – lo Spanò gli indicò un giovane lì presente perché proprietario di una barca in rimessaggio, che si presentò come Luciano Lo Giudice, fratello del collaboratore di giustizia Maurizio Lo Giudice, il quale da qualche anno aveva iniziato a rendere dichiarazioni alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria (in particolare al dottor Mollace), su vicende criminali di natura non mafiosa».

Secondo Cisterna – prosegue la Commissione, «Luciano Lo Giudice all’epoca risultava assolutamente incensurato e, quel che qui più conta, non segnalato negli archivi di polizia. Nella memoria difensiva del 13 marzo 2012, Cisterna ha tentato di dimostrare l’assoluta estraneità – all’epoca dei (primi) fatti contestati – di Lo Giudice Luciano alla consorteria criminosa iniziata dal capostipite della famiglia Lo Giudice e, comunque, la sua assoluta mancanza di consapevolezza in tal senso. Tali affermazioni, se appaiono poco credibili in punto di fatto, assumono comunque il connotato dell’irrilevanza, sol che si ponga mente alla ratio del trasferimento di ufficio (…) In altre parole sarebbe addirittura irrilevante accertare l’effettiva consapevolezza in capo al dottor Cisterna dello spessore criminale di Luciano Lo Giudice dal momento che quest’ultimo costituisce un dato di fatto difficilmente contestabile (tanto che lo stesso dottor Cisterna non può negare che Luciano Lo Giudice fosse “un personaggio border-line da un punto di vista informativo”) e comunque degli appartenenti alla sua famiglia. In sostanza, quello che conta è l’immagine lesa del magistrato derivante dalla frequentazione con soggetti che dalla collettività sono percepiti come appartenenti alla criminalità organizzata».

Spiega poi la Commissione: «Tale circostanza è poi supportata dalle acquisizioni documentali, dalle quali emerge che Lo Giudice Luciano era stato condannato, in primo grado, con sentenza dal Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, per aver partecipato ad una associazione per delinquere di stampo mafioso composta dai fratelli maggiori Domenico, Antonino, Giovanni (oltre ad altri), nonché per estorsione aggravata. Tale pronuncia veniva riformata dalla sentenza di assoluzione della Corte di Appello presso i Minorenni di Reggio Calabria. E’ un fatto incontestabile, del resto, che almeno dal 1986 il dottor Cisterna (come dallo stesso ammesso nel corso dell’interrogatorio del 17 giugno 2011) era a conoscenza del coinvolgimento della famiglia Lo Giudice in affari mafiosi, per aver svolto attività giudiziaria in materia. In particolare Lo Giudice Antonino, dopo essere stato ristretto in sede cautelare a seguito della nota Operazione “Olimpia” nel 1994 (che aveva visto il dottor Cisterna svolgere il ruolo di Gip nell’ambito del procedimento), era stato condannato in primo grado a 13 anni di reclusione e poi in grado di appello. Nei confronti dei fratelli Lo Giudice Domenico e Lo Giudice Giovanni, la Polizia di Stato aveva redatto un’informativa (avente ad oggetto “richiesta relativa alla sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni utilizzati per lo svolgimento delle attività commerciali da parte della famiglia Lo Giudice) indirizzata al dottor Alberto Cisterna, assegnatario del fascicolo in qualità di Sostituto Procuratore della Dda di Reggio Calabria».

Spiegano ancora i commissari: «Lo Giudice Antonino, Pietro, Domenico e Giovanni, risultavano tutti, già all’epoca dei fatti, inseriti nell’attività mafiosa iniziata dal padre (come si evince dalla sentenza del 19 febbraio 1993 del Tribunale di Reggio Calabria – confermata dalla sentenza della Corte di Appello di Reggio Calabria dell’11 gennaio 1994 – che li condannava a lunga pena detentiva per associazione di stampo mafioso ed estorsioni ai danni di operatori economici)». 

In ogni caso, nella ricostruzione difensiva del dottor Cisterna «Luciano Lo Giudice, in occasione del loro primo incontro, si sarebbe limitato a riferire di aver conosciuto, sempre nel cantiere Spanò, il dottor Francesco Mollace, al quale ultimo si era rivolto, per poter aiutare il fratello Lo Giudice Maurizio. Sarebbe dunque stato Mollace (evidentemente informato dallo stesso Luciano o da Spanò dell’incontro con Cisterna), nello stesso contesto temporale, in quanto titolare da anni delle indagini che avrebbero di seguito condotto alla cattura del latitante Pasquale Condello, a riferire a Cisterna che Lo Giudice Luciano si era detto in possesso di informazioni che avrebbero potuto condurre alla cattura del latitante, ma che non era disposto a rivolgersi alle forze di polizia locali e a sondare la sua disponibilità ad attivare da Roma qualche canale di comunicazione con Luciano».

I servizi segreti del Sismi

«Cisterna – si legge nella relazione mandata al Plenum – prospettò allora la strada – condivisa da Mollace – del Colonnello Ferlito, comandante del Ros di Reggio Calabria agli inizi degli anni ‘90 e, nel 2004, a capo della struttura Criminalità Organizzata del Sismi. Risulta dalle dichiarazioni rese dal colonnello Ferlito, assunto a sommarie informazioni testimoniali dalla Procura di Reggio Calabria, che Cisterna effettivamente si adoperò per organizzare un incontro tra Lo Giudice Luciano e l’ufficiale dei Servizi, presso il cantiere della Nautica Spanò. Il tutto sarebbe avvenuto, nella ricostruzione difensiva di Cisterna, nel contesto di contatti che la Direzione nazionale antimafia ebbe a prendere, a più riprese e attraverso diversi magistrati, con il Sismi, il servizio segreto militare che al proprio interno era dotato di una componente appositamente dedicata al contrasto alla criminalità organizzata (così in una nota indirizzata da Cisterna al Procuratore Nazionale Antimafia in data 1 luglio 2011), secondo una prassi costante, seguita sia dal procuratore nazionale dottor Vigna che dal suo successore dottor Grasso, per pervenire alla cattura di pericolosi latitanti. Nel corso della sua audizione, invece, il Procuratore Nazionale Antimafia (Piero Grasso, ndr) ha riferito che il compito della Direzionale antimafia è quello della “raccolta di tutte le informazioni in possesso di tutte le forze di polizia giudiziaria sul latitante per fare un compendio probatorio che potesse essere utile ai magistrati che dirigevano le indagini per la sua cattura” e che tale raccolta “alle volte avveniva anche attraverso contatti del procuratore Vigna con esponenti dei Servizi informativi che segnalavano certe situazioni”, per farle pervenire alle procure distrettuali locali che seguivano la ricerca del latitante».

Così conclude il capitolo la Commissione: «Giammai, dunque, una condotta come quella tenuta dal dottor Cisterna (che ha direttamente provveduto a mettere in contatto Lo Giudice Luciano con un esponente del Sismi), risulta avallata dal Procuratore Nazionale Antimafia, che anzi ha spiegato come lo strumento a disposizione della Direzione è quello del colloquio investigativo e che il canale istituzionale in genere è quello della polizia giudiziaria che riceve le notizie, le cosiddette veline dai Servizi, e che poi le valuta per ulteriori attività di riscontro. In ogni caso, ha anche aggiunto Grasso, il titolare dell’informazione pervenuta alla Dna attraverso i canali istituzionali rimane il Procuratore Nazionale, che poi le smista alle varie Procure, laddove non risulta che tale onere informativo sia stato adempiuto dal dottor Cisterna nei confronti del capo del suo ufficio, compromettendo l’attività istituzionale e, soprattutto, facendo insorgere seri dubbi sulle finalità dell’intervento».

Nella sostanza secondo la Prima Commissione la partita dei rapporti con Luciano Lo Giudice, quale fonte confidenziale al fine di catturare il boss Pasquale Condello, non andava gestita come invece è stato fatto da parte di Alberto Cisterna. Un comportamento che quindi sarebbe sanzionabile. Comportamento censurabile al pari di alcuni anni di cui sarebbe stato protagonista un alto magistrato dell’antimafia nazionale, il quale avrebbe dovuto avere atteggiamenti quantomeno più prudenti.

Per la Commisione «in primo luogo va affermato chiaramente che i fatti indicati nella contestazione sono, nella sostanza, documentalmente provati». Per aggiungere quindi che «La Commissione ha ritenuto che i fatti indicati siano accertati e provati sia nella loro materialità sia nella loro idoneità a determinare il venir meno, in capo al dottor Alberto Cisterna, delle condizioni di indipendenza e imparzialità richieste per l’esercizio delle funzioni nell’ufficio attualmente ricoperto».

Cisterna invece ha sostenuto che i rapporti con Lo Giudice avvenivano «nel contesto delle funzioni, per loro natura atipiche rispetto a quelle degli altri uffici giudiziari, rimesse alla Direzione nazionale antimafia e alla sua peculiare connotazione (“Direzione”, appunto, e non “Procura”) quale ufficio di raccordo nell’attività di prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata».

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