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COSENZA – Dal pozzo degli anni spunta fuori un braccialetto. Quello che Roberta Lanzino portava quel tragico pomeriggio che fu violentata e uccisa. Un filo di speranza labile al quale attaccarsi, sperando in una traccia di Dna ancora superstite, nonostante siano passati ormai quasi 26 anni. L’udienza del processo bis per la morte della studentessa diciannovenne, ha fatto segnare ieri un colpo di scena inaspettato. Dopo tutto questo tempo. Grazie all’intuito investigativo dell’avvocato della famiglia Lanzino, Ornella Nucci, che continua a studiare i documenti e a rivedere foto e atti riguardanti anche il primo processo.

E proprio da quegli atti l’avvocato Nucci ha ripreso e osservato con grande attenzione ogni foto del ritrovamento del cadavere e etto ogni singolo verbale fino ad avere un’illuminazione. Roberta, quel giorno di luglio, aveva addosso due braccialetti: uno dorato e uno argentato, descritti sommariamente nel verbale dei carabinieri, ma ben visibili nelle foto. L’avvocato ha poi ricordato che lo stesso braccialetto era ancora al polso della povera ragazza quando fu portata via per l’esame autoptico e che, in quell’occasione, alla famiglia era stato restituito quello che Roberta indossava. Collegando i fatti l’avvocato ha chiesto alla signora Matilde, mamma di Roberta, se quel piccolo bracciale fosse ancora conservato a casa e così è stato ritrovato e portato all’attenzione del pm che ieri ha chiesto una perizia alla ricerca di qualche traccia utile. Tracce che potrebbero fornire un fondamento scientifico ad un processo, altrimenti, fondamentalmente indiziario. Insieme al bracciale, il pm ha chiesto la perizia anche sul famoso motorino che la vittima guidava, veicolo trattato senza alcun riguardo sin dal momento del ritrovamento (le forze dell’ordine vi alitarono sopra alla ricerca di impronte…) e che da allora non è stato mai esaminato. E c’è un terzo elemento: una porzione di terriccio sequestrata sul luogo del delitto, sul quale l’accusa ha chiesto ulteriori indagini diagnostiche. Nonostante queste novità, comunque, l’avvocato Nucci, a nome anche della famiglia, preferisce essere cauta. «Non ci aspettiamo grossi risultati – ha detto – è passato troppo tempo e i reperti sono stati conservati con incuria».

Di altro tenore la reazione della difesa dell’imputato Franco Sansone. L’avvocato Enzo Belvedere ha invece accolto con favore le nuove richieste di perizie e ha dichiarato che il suo cliente è pronto a sottoporsi ad un prelievo del Dna per una prova comparativa. «Finalmente è arrivato il primo momento serio di questa indagine– ha detto l’avvocato Belvedere – Finalmente possiamo parlare di prove scientifiche, in questo processo che è addirittura peggiore del primo, per le indagini lacunose che ha presentato. Il mio cliente è pronto a prestarsi alla prova comparativa del Dna che mostrerà la sua estraneità ai fatti». Lo stesso legale ieri, dopo aver portato sui banchi dei testimoni il vigile urbano di Cerisano, che ha testimoniato di non aver mai visto i fratelli Sansone a bordo di una 131 (vettura sulla quale viaggiava presumibilmente l’uomo che seguì Roberta lungo la strada di Falconara), ha rinunciato ad una serie di altri testimoni e ne ha citati un’altra decina per la prossima udienza. Un processo che vede alla sbarra Alfredo Sansone e i figli Remo e Francesco. Quest’ultimo accusato di aver ucciso insieme ad un complice, Luigi Carbone, Roberta. Tutti e tre i Sansone sono poi accusati di aver fatto scomparire nel nulla, e a due mesi di distanza dalla tragica fine della Lanzino, lo stesso Carbone. Forse, questa le tesi dell’accusa, temevano che potesse, un giorno, raccontare la verità sul delitto di Falconara.

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