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VENOSA – “I popoli del Mediterraneo uscirono dalla barbarie quando iniziarono a coltivare l’ulivo e la vite”: così parlò anzi scrisse Tucidide nel 460 a. C. La seconda giornata del convegno nazionale su alimentazione e archeologia industriale sembra disegnata attorno alla massima dello storico greco. A Luigi Caricato, oleologo e direttore della rivista Olio Officina Magazine, tocca raccontare “l’arte olearia italiana come storia di famiglia”. Leccese trapiantato a Milano, amante della poesia oltre che amico di Giuseppe Pontiggia, in 15 anni ha dedicato 33 libri alla materia: l’ultimo (Atlante degli oli italiani, Mondadori 2015) ha il pregio di “banalizzare e volgarizzare” – sono i termini usati dallo stesso autore – il linguaggio tecnico dei volumi scritti prima di lui, pure imprescindibili come fonti documentarie eppure “con poco racconto”. A presentare il libro di grande formato è Giuseppe Ferro, agronomo e accademico dei Georgofili, un padre formato a Policoro e poi attivo nella riforma agraria in Puglia: “Qui sembra rimasto tutto a quando avevo cinque anni – dice – e non so se sia un bene o un male”. Un po’ di nostalgia sale quando Ferro ricorda gli anni d’oro in cui l’Italia vantava il 30% della produzione mondiale di olio d’oliva (adesso si raggiunge il 15% nelle annate migliori), poi presenta una slide che certifica il crollo della produzione olivicola in Puglia dopo la riforma del 2006, “un colpo di grazia”: fino ad allora, l’oro liquido aveva sempre mantenuto livelli superiori alla produttività media di tutto il settore agricolo; i circa 1000 frantoi pugliesi sui 4mila italiani (in Basilicata ce ne sono più o meno 150) hanno capitalizzato al peggio la politica dei contributi, mentre le aziende invecchiavano e altre inseguivano l’innovazione legata più ai dati anagrafici e al cambio generazionale che al know-how. È senza dubbio un quadro a tinte fosche reso ancora più inquietante dal dato sul costo del lavoro nel comparto agricoltura: in Italia è pari al 35,30%, esattamente il doppio della nostra prima competitor, la Spagna.
Lo stesso Caricato poco prima aveva affermato senza mezzi termini che in Italia l’agricoltura non esiste: esempio di scuola il 50% dei grani lavorati qui ma provenienti dall’estero.
La notizia del giorno, tra gli operatori presenti nella sala del trono del castello di Venosa, sono gli 800 milioni di euro destinati al settore dalla legge di stabilità appena licenziata dal governo. Basteranno a risolvere problemi atavici e altri incancrenitisi nei decenni? La domanda è retorica. Lo scenario è, restando al grano, una polverizzazione-parcellizzazione delle aziende (in Puglia il 98% è a conduzione familiare), così piccole, spesso inferiori all’ettaro, che non è possibile nemmeno parlare di strutture aziendali. Piccolo non è bello, insomma. L’assenza di consorzi e cooperative che canalizzino i conferimenti in un mercato ampio crea un ingorgo improduttivo che, spiega Caricato, “rappresenta un elemento di debolezza”. È chiaro che se i grandi nomi (Carapelli, Bertolli, Sasso) vengono acquisiti da gruppi stranieri, i piccoli hanno il futuro segnato se non si aggregano o non puntano su managerialità e mercati esteri: è così che la Spagna sta erodendo il vecchio prestigio italiano. E quei “talenti solisti” penalizzati da un contesto sfavorevole patiscono da un lato la disgregazione e la conflittualità dall’altro burocratizzazione e politicizzazione spinte.
Come uscirne? Il produttore di olio Masturzo, venosiano al vertice nazionale di Federolio, quarta generazione di un’azienda nata nel 1923, sostiene che “il declino non è inevitabile” e cita il primo piano olivicolo in discussione tra operatori del commercio, dell’industria e della produzione olearia: la Spagna è già al quinto, giusto per ribadire di chi è che soffriamo la concorrenza, o forse è proprio complesso d’inferiorità… Non resta che annegare la tristezza nella prima Dop lucana “Vù”, frutto della passione e della qualità di 16 produttori della zona: ottima sulle bruschette, gli ospiti approvano premesse aziendali e risultato al palato.
A proposito di narrazione – il termine non piace a tutti in sala – c’è invece il legame imprescindibile di questo territorio, il Vulture, con l’Aglianico. Qualcuno ricorda le scene del Vangelo pasoliniano girate nelle cantine di Barile, ma c’è tutta una letteratura più o meno scientifica che da Plinio il Vecchio porta a Gaetano Cappelli e ricalca la mitologia di un brand superpremiato, fresco di Docg (la G del garantito non è cosa da poco) e figlio di un lembo di terra fortunato per come è dominato da un vulcano equidistante da tre mari. Margherita Arcieri (Università della Basilicata) approfondisce le suggestioni della denominazione (Aglianico da ellenico?) mentre Daniel Romano (Doc Roma) torna alla narrazione e sogna per il re degli autoctoni lucani una capsula unica col profilo della montagna come accade già per i vini del Südtirol: “Un messaggio unitario che racconti tutte le differenze”. L’esperienza del Museo di Torgiano (Perugia) esposta da Lucia Tremonte dimostra che nel marketing territoriale conta più il messaggio che il prodotto veicolato. E il Vulture ha qualcos’altro da musealizzare oltre al “carpe diem” oraziano: si tratta, appunto, di cogliere l’attimo.

e.furia@luedi.it

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