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Un murale dedicato a Giuseppe Conte

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A ben vedere, di tutte le etichette che gli sono state affibbiate, a Giuseppe Conte che ieri ha ottenuto il via libera da parte della terza maggioranza in tre anni, manca quella a lui più congeniale, la più performante: di essere il Benjamin Button della politica italiana. Con una differenza, decisiva: invece che essere nato vecchio, è nato pronto. Non l’aveva capito nessuno, neanche i suoi sponsor che, nella meraviglia generale un po’ snob e un po’ blasée, l’avevano tirato fuori dal cilindro assegnandogli – figuriamoci – il ruolo dell’ esecutore delle volontà dei dioscuri Salvini-Di Maio.

L’AVVOCATO DEL POPOLO

Sono bastate poche settimane, e l’autodefinitosi avvocato del popolo aveva capito tutto, acconciandosi sotto il mantello istituzionale del Quirinale e ricevendone l’attestazione di interlocutore privilegiato nell’oceano tempestoso del populismo vittorioso e travolgente, poi prosciugato dalla risacca dell’azione di governo e infine spiaggiato sui lidi terribili della pandemia più rovinosa di sempre. Conte è rimasto imperturbabile ma tutt’altro che immobile. Ha tirato fuori gli artigli dilaniando il vicepremier più tracotante, nel mentre oscurava l’effigie dell’altro più levigato e insinuante. Il primo è precipitato dall’Himalaya delle Europee agli Appennini delle ultime amministrative; il secondo si è fatto fare ombra dalla feluca che una volta indossata, suvvia come fai a togliertela?

Passo dopo passo, Conte si è imbellettato di Dpcm mettendosi al tempo stesso sempre più in sintonia con l’umore profondo degli italiani, ben sapendo che il loro sport preferito è di denigrare in pubblico gli stessi che tifano in privato. I maligni spargono fiele sostenendo che il suo vero mentore e burattinaio è l’ingegner Rocco Casalino, perfetto conteggiatore del latinorum di palazzo Chigi: uno, bis, ter di qui al 2023. Sarà. Però poi è lui che va negli emicicli di Montecitorio e palazzo Madama a impugnare l’asta del microfono avvicinandola alla mascherina affinché le parole non si perdano e trattandola come la bacchetta del direttore d’orchestra che sillaba lo spartito ad alunni molto volenterosi ma spesso indisciplinati.

ROMPICAPO ITALIANO

È vero, la sua terza maggioranza è la più debole di tutte. Una forza politica che lo sosteneva anche se per modo di dire, si è eclissata: il tavolo a quattro gambe nato a metà del 2019 ora ne ha tre più qualche sgabello che ansima per assolvere al suo ruolo. Invece il presidente del Consiglio, ennesimo paradosso del rompicapo politico italiano, si è rafforzato perché ha dimostrato a tutti la sua assoluta insostituibilità. “È l’unico punto di equilibrio non solo in Parlamento ma nel Paese” l’ha gratificato Pierluigi Bersani.

Politicamente, vale assai più del giulebbe riversatogli addosso da Nicola Zingaretti quale “punto di riferimento del progressismo italiano”. Similmente all’avatar cinematografico, Conte rimpicciolisce nei voti ma ringiovanisce nelle sembianze e nello spirito politico. Piombato nell’agone come tecnico, non politico e perfino antipolitico, mano a mano della politica – quella di potere, è vero: ma scusate anime belle, ce n’è forse un’altra? – e del suo ruolo come dei suoi atteggiamenti si è giorno dopo giorno rivestito, calzandola con la stessa nonchalance con cui sfoggia le ormai leggendarie pochette. Magari fino a proporre un suo partito personale, rifugio di costruttori del glorioso futuro che verrà. “Serve la politica per evitare che il malessere sociale diventi rabbia”, ha declamato nell’aula del Senato prima di assaporare il gusto dell’ennesima vittoria, gustosa perché per appello nominale. Chi potrebbe oggi esprimersi in un simile modo dinanzi agli italiani in fila per il tampone o chiusi in casa, con la macchina in garage ed il negozio, aula scolastica, ufficio, fabbrica, laboratorio sbarrato per paura del contagio?

PREMIER PIÙ FORTE

La maggioranza è più debole, il premier è più forte. Ed è su questo precario equilibrio che Conte dovrà costruire il percorso per vincere il Covid e mediante il Recovery plan ridare slancio, sviluppo e competitività ad un Paese smarrito, impoverito e (qualcuno lo ricorda?) ultra indebitato. Gli indicatori economici non sono buoni, quelli sanitari neppure, la pazienza degli italiani è agli sgoccioli, quella europea forse se n’è già andata, i mercati come le stelle stanno a guardare. Il compito è improbo e nutrire dubbi sulla riuscita è più che legittimo. Per altri si parlerebbe di azzardo. Ma il capo del governo volteggia come un equilibrista. Lui lo sapeva; gli altri hanno dovuto impararlo.


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