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NON bisognava essere profeti di professione per prevedere come sarebbe andata a finire la vertenza delle ex Daramic e il piano di presunto rilancio della Step One che ha rilevato lo stabilimento di Tito. Ora, ai lavoratori dell’azienda che ha ereditato il sito dalla Sistema – società vincitrice del bando di reindustrializzazione, di cui faceva parte anche la stessa Step One, che, però, a causa dei termini scaduti, non si è aggiudicata il finanziamento della Regione – non rimane che sperare nel fallimento, per cercare di recuperare almeno il trattamento di fine rapporto.

Il verdetto è previsto per oggi, nell’ultima udienza che si terrà davanti al giudice del Tribunale di Potenza. Per assurdo, il finale che nessuna impresa dovrebbe mai augurarsi, è l’unica ancora di salvezza per gli ex Daramic che nei mesi scorsi venivano riassunti dalla Step One.

Già allora, però, era abbastanza evidente che il progetto per la ripartenza della fabbrica che prima della scelta di Daramic di delocalizzare le attività, produceva batterie per auto, facesse acqua da più parti. “Ex Daramic, quanti dubbi”, era il titolo di un articolo del Quotidiano dello scorso aprile a cavallo della “campagna di acquisti” della Step One che chiamava a lavoro un bel pò di lavoratori della ex Daramic. Per di più, con contratti a tempo indeterminato, grazie alle agevolazioni previste dalla Regione a favore della Step One: 805.000 circa. Insomma, un bel pò di soldi pubblici per far ripartire lo stabilimento di Tito, che, nell’ultima versione dell’oggetto sociale, avrebbe dovuto produrre pavimenti per treni. Nonostante non fosse dotato nemmeno dell’attrezzatura necessaria. E’ bene precisare che fino ad ora la Step One non ha intascato nulla (nè contibuti per la reindustrializzazione, nè quelli per la creazione dell’occupazione stabile), visto che la produzione non è mai partita, il che ha portato la Regione a revocare il finanziamento. Ma non ha nemmeno mai pagato, nemmeno uno stipendio, da quando i lavoratori sono stati assunti.

Le conseguenze per i dipendenti sono gravi, visto che molti di loro, accettando i nuovi contratti, hanno rinunciato agli assegni di mobilità. La produzione a Tito non riparte perché la società che ha rilevato il sito sembra non avere la forza finanziaria per portare avanti l’investimento. Un amaro finale per una vertenza che si trascina ormai da anni, con danni e conseguenze non solo per i lavoratori ma anche per il territorio. Daramic non è solo una delle fabbriche considerate, nel passato, tra le più importanti del Potentino. Ma anche quella che ha provocato un forte inquinamento di terreni e acque di un’ampia area della zona industriale di Tito, già sito d’interesse nazionale per i veleni della ex Liquichimica. Tanto che un’ordinanza comunale ancora oggi vieta l’utilizzo delle acque. Vendendo lo stabilimento, dopo l’autodenuncia, ha “venduto” anche le attività di bonifica previste dalle legge. In pratica, chi ha rilevato il sito, si è obbligato anche a portare avanti le attività di ripristino ambientale. Nel 2013 Step One subentrava alla precedente società. Solo qualche giorno fa, l’azienda ha comunicato al Comune di Tito che la bonifica è stata interrotta, e lo rimarrà per almeno tre settimane, «per danni, le cui cause non sono ancora note, alla cabina elettrica generale dello stabilimento». E’ la terza volta, in meno di anno, le attività di ripristino ambientale vengono interrotte. Ogni volta, le cause diverse: una volta il maltempo, un’altra il danneggiamento degli impianti. Ma la sostanza è la stessa: la bonifica procede a singhiozzo. Anche questa è una storia lunga e piena di lacune. Già sospese nel 2011, le attività di bonifica ripartivano solo a ottobre del 2014. Da allora però, già per tre volte sono state sospese. Con le conseguenze che tutti possono immaginare.
Ai già ben noti casi di reindustrializzazione fallita, si aggiunge anche quello ex Daramic, che, seppure con un copione ancora più complesso, può essere assimilata a storie come quelle della ex Mister Day della ex Lucana Calzature di Maratea. E a proposito di quello che era il calzaturificio di Maratea, ci sono novità anche su questo fronte.

Pare che la Giunta regionale sia pronta a revocare l’assegnazione del bando alla Alta Sartoria Italiana. La società non è stata in grado di produrre le garanzie bancarie richieste della Regione. Un altro flop, altre speranze disattese. Anche se, pure in questo caso, qualcuno l’aveva previsto, già molto tempo prima.

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