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POTENZA – Era «fuggito» da Potenza in Romania, «strozzato dai debiti», secondo gli inquirenti della procura del capoluogo. Poi è tornato in Italia, ma si è fermato in un albergo poco lontano da Roma, e lì si è ucciso.
E’ la tragica storia di un autotrasportatore di Potenza riecheggiata setti anni dopo in Tribunale nel processo a carico di un collega, Salvatore Laino, accusato di usura ed estorsione nei suoi confronti.
A ripercorrerla, di fronte al collegio presieduto da Aldo Gubitosi, sono stati gli investigatori che si sono occupati del caso, nel 2008, e lo stesso Laino che si è sottoposto a interrogatorio per rivendicare la sua innocenza.
Il capitano dei carabinieri Michelange Stefano ha raccontato l’arrivo della comunicazione dei colleghi romani, e l’avvio delle indagini sul conto del defunto, quando non era ancora chiaro se si trattasse di suicidio o altro.
La vittima, titolare di una ditta di autotrasporto, aveva lasciato un manoscritto nella stanza d’albergo in cui parlava di «errori imperdonabili» commessi, senza scendere troppo nei particolari. Ma i militari avrebbero appreso da «fonte confidenziale» che a turbarlo c’erano questioni economiche: era sotto usura e inseguito da diversi creditori. Per questo era fuggito in Romania. Di qui l’avvio di una serie di accertamenti sui suoi movimenti bancari e sui rapporti col collega, fino alla scoperta di due assegni: uno in entrata da Laino di ottomila euro, e un altro in uscita da quattordicimila in uscita poco tempo dopo.
In aula gli investigatori hanno spiegato di non essere riusciti ad accertare la natura dell’operazione. Ma gli inquirenti sembrano convinti che si trattasse di un prestito restituito con interessi al 75%. In più gli contestano un tentativo di estorsione per essersi presentato a casa della sorella del defunto, quando era ancora “irreperibile” in Romania. Lì l’avrebbe minacciata parlando degli «amici di Abriola» a cui il fratello doveva i soldi, per farsi consegnare una copia della sua carta d’identità.
«Mi serviva soltanto per incassare un assegno». Ha spiegato ai giudici ieri mattina Laino, assistito dall’avvocato Franco Trivigno. «Erano soldi che mi doveva per alcuni viaggi che avevo fatto per conto suo. Ho lavorato così per circa 3 anni. Lui fatturava e io trasportavo la merce, poi mi pagava con assegni o contanti. Solo che a un certo punto se n’era andato e non sapevo come fare per farmeli liquidare. E’ stato il direttore di banca a dirmi che serviva una copia della carta d’identità per la delega».
Quanto agli «amici di Abriola» Labriola ha negato di aver mai pronunciato quella frase.
La prossima udienza è stata fissata il 1 febbraio per sentire i testimoni della difesa, in particolare i rappresentanti di alcune imprese clienti del defunto, a cui Laino avrebbe consegnato la merce lavorando quando lavorava per conto suo.

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