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CATANZARO – Sapevano bene che il percolato prodotto dalla discarica finiva direttamente nel fiume Alli, quindi in mare, distante solo poche centinaia di metri in linea d’area. Lo sapevano, e ne parlavano al telefono senza alcun problema. Per questo, il pm Carlo Villani ha chiuso le indagini nei confronti di Stefano Gavioli e Loris Zerbin, rispettivamente amministratore e direttore della “Enertech”. Nei confronti dei quali il magistrato ha ipotizzato un comportamento doloso, che per poco non ha provocato un vero e proprio disastro ambientale. 

Una situazione di cui erano assolutamente consapevoli, secondo l’accusa, dal momento che la fuoriuscita di percolato sarebbe avvenuta attraverso un tubo di cemento costruito ad hoc e posto all’interno del muro perimetrale in cemento armato dell’impianto, quindi “dolosamente immesso nelle acque del fiume e, quindi, successivamente nel mar Jonio”. Così come si legge nell’atto d’accusa ribadito dal sostituto procuratore, Carlo Villani, nel provvedimento di chiusura delle indagini, emesso nell’ambito dell’inchiesta più ampia, che si basa su centinaia di intercettazioni telefoniche e ambientali messe insieme da carabinieri e finanzieri che, per oltre un anno, sono stati con gli occhi puntati su tutti gli indagati per portare avanti le verifiche di competenza. Ed è proprio dall’intercettazione di una telefonata intercorsa tra Zerbin e un suo dipendente, il crotonese Antonio Garrubba, a sua volta rimasto impigliato nella rete degli investigatori, che emerge il timore per le conseguenze dell’immissione del pericoloso liquame. «Scava sotto e sbarra la vasca e se la vasca si riserva su un fianco è un disastro». Proprio così, un disastro. Lo temevano anche loro, il disastro ambientale. Zerbin e Garrubba lo sapevano e ne parlavano, del rischio della fuoriuscita del pericoloso liquame dalla discarica. Ma, quel percolato in qualche modo andava smaltito. E, braccialetti o no («Sai a me cosa mi fanno, se trovano il percolato che va fuori? Mi portano via con i braccialetti! E ci lascio la famiglia a casa», diceva Zerbin a Garruba in una telefonata del 16 aprile), alla fine la canna al fiume era stata messa. Così, per cinque giorni su sette (da lunedì a venerdì), via libera ai riversamenti del percolato da discarica nel fiume Alli, e da qui al vicino mar Jonio, con tanto di danno all’ambiente e alla salute pubblica “irreversibile e di entità eccezionale”, scriveva ad ottobre scorso il gip Abigail Mellace, che, nell’accogliere la richiesta avanzata dal magistrato, aveva spedito i carabinieri del Noe ad apporre i sigilli all’intera struttura, notificando un lungo e pesante avviso di garanzia agli indagati per “immissione dolosa nelle acque superficiali o sotterranee del fiume Alli di rifiuti liquidi costituiti da percolato di discarica”, che già era stato preceduto da un sequestro di beni per 90 milioni di euro eseguito, nei mesi precedenti, a carico di Stefano Gavioli e Loris Zerbin, per il mancato pagamento delle imposte da parte di alcune società, la Enertech in testa, che si erano succedute nella gestione della discarica. Una gestione portata avanti contro ogni norma di legge, in assenza di alcun tipo di controllo per almeno tre anni, ovvero dal 2008 ad oggi, aveva sostenuto la Procura, spiegando che «di fronte a situazioni di straordinaria gravità il letto del fiume si alzava anche di 5 centimetri per 5 giorni a settimana, per riabbassarsi nel week end, con il punto di scarico del percolato che avveniva a un chilometro di distanza dal mare. In particolare, negli anni 2008, 2009 e 2010, nel corso dei quali non era stato realizzato alcun controllo sull’impianto, nemmeno rispetto al possibile arrivo di rifiuti radioattivi, e la discarica aveva continuato ad operare in condizioni talmente fuori norma che il consulente incaricato aveva equiparato il numero di violazioni riscontrate ad un’attività compiuta senza autorizzazione. I rifiuti, quindi, sarebbero stati riversati a quintali dai camion direttamente nel fiume, senza procedere ad alcuna differenziata, così come avevano appurato i tecnici Arpacal già ad aprile del 2010, nel corso di un sopralluogo che aveva indotto i carabinieri a piazzare le telecamere proprio lì, dove già ad agosto del 2008 erano state rinvenute le prime tracce di percolato. Inutili, al momento, si sono rivelate le dichiarazioni difensive degli indagati, che, tuttavia, potranno tentare ancora una volta di uscire fuori dai guai, chiedendo, entro 20 giorni dalla notifica del provvedimento, di essere interrogati. A quel punto si deciderà come procedere, per loro e per gli altri indagati, i cui nomi restano ben fermi al vaglio della Procura. 

 

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