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SERRA D’AIELLO – «Mi addolora ma la sentenza non mi meraviglia. Da tempo credo che la condanna vera per quest’uomo sarà quella pronunciata da Dio». 

E’ un commento severo, molto severo, quello che la signora Giovanna, madre di quattro figlie, tutte affette da gravi disturbi psichici e fisici, esprime sulla recentissima sentenza pronunciata dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha confermato la condanna comminata in secondo grado a don Alfredo Luberto, all’epoca dei fatti presidente del consiglio di amministrazione dell’Istituto Papa Giovanni XXIII di Serra d’Aiello. 
Una vicenda. Quella dell’IPG, terribile, dai risvolti umani ancor più drammatici per i 360 ammalati che, il 17 marzo del 2009, per decisione della magistratura, viste le gravi carenza igienico-sanitarie in cui versava la struttura che la politica in primis non aveva ritenuto di dover salvare, vennero trasferiti in altre strutture disseminate nella provincia di Cosenza. Una giornata tragica, dai tratti surreali, consumatasi tra cordoni di Polizia e centinaia di ambulanze sulla provinciale che da Campora San Giovanni portava a Serra d’Aiello. Scene forti, immortalate in immagini trasmesse in tutta Europa, con aperture nei telegiornali delle maggiori reti televisive italiane. E poi drammatica per gli stessi dipendenti, oltre 500, tutti professionalizzati, che da li a qualche settimana, dopo decine di anni di lavoro in quella che era considerata la “Fiat del Sud”, conobbero la mortificazione del licenziamento collettivo. Da allora, nonostante le promesse, non hanno più lavorato. 
Il verdetto della Cassazione, pronunciato venerdì sera, condanna in via definitiva don Luberto a cinque anni di reclusione. L’ex responsabile del “Papa Giovanni” fu arrestato nel luglio del 2007 con l’accusa di aver distratto diverse centinaia di miglia di euro dalle casse dell’istituto serrese. Ma la sentenza, evidentemente, non soddisfa del tutto la sete di giustizia dei genitori degli ammalati, come la signora Giovanna, che più di ogni altra ha vissuto sulla propria pelle quelle tragiche giornate. 
«Avevo portato dalla Campania a Serra d’Aiello le mie quattro figlie che il Signore ha voluto nascessero così – ci racconta – trovando in Don Giulio Sesti Osseo un padre e nel personale dell’istituto, persone di grande cuore e professionalità, fratelli e sorelle. Stavano benissimo, tanto che mi ero trasferita anch’io nella vicina Campora San Giovanni. Mi sembrava di aver preso il sole con le mani. Quello che è accaduto negli ultimi anni non me lo sarei mai aspettato. I soldi invece di essere utilizzati per i ricoverati e per pagare gli stipendi ai lavoratori sono finiti nelle tasche di altri. Ma avevo speranza che la Chiesa risolvesse tutto. E invece niente. Ora non riesco ad andare a Messa, non riesco a prendere la Comunione. Ho letto che don Luberto forse non andrà in galera, nonostante la condanna che già ritengo inadeguata per quello che ha fatto. Allora dico che sarebbe giusto che fosse mandato nelle corsie ad assistere le persone ammalate e sfortunate come le mie quattro figlie, per capire fino in fondo che cosa significa e cosa ha fatto. Da quel 17 marzo – aggiunge ancora – le mie figlie (la più grande ha 38 anni) sono ricoverate in una struttura a 135 chilometri da dove vivo. Non stanno male ma ancora ogni tanto qualcuno dice che devono essere di nuovo trasferite. Per andarle a trovare, e ci vado diverse volte alla settimana, devo fare 270 chilometri, con spese insopportabili e utilizzando la SS 106, sola e spesso con il buio. Quante sofferenze don Luberto ha dato a questi nostri familiari e a quelle famiglie che lavoravano all’istituto solo Dio lo sa. Ecco io credo che lui debba passare il resto della sua vita ad aiutare gli altri, quelli che vivono nel disagio più estremo, come papa Francesco insegna. E forse – conclude – neanche basterà».
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