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Donata Bergamini

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Donata Bergamini al processo per la morte del fratello Denis sul colloquio con l’ex procuratore di Castrovillari Ottavio Abbate, mi disse: “Sappiamo che non è stato un suicidio, ma siamo in Calabria…”.

È UN RACCONTO che comincia dalla fine. Da quella volta – l’ultima – in cui Donata Bergamini vedrà suo fratello Denis ancora vivo. Il 13 novembre 1989 il calciatore del Cosenza, dopo il derby della domenica con il Monza, si fermò a casa della sorella a Ferrara. Dal banco dei testimoni in Corte d’Assise, dove ieri è comparsa per rendere la propria versione dei fatti ai giudici e al pm della Procura di Castrovillari, Luca Primicerio, Donata parte proprio da lì: «Ricordo che gli domandai come andava a Cosenza e gli chiesi della Internò. Mi disse: “Me la trovo dappertutto, è come l’attack”».

LA TELEFONATA RICEVUTA DA DENIS A CASA DI DONATA

Quel giorno, ricorda Donata, era il compleanno di sua figlia Alice. Denis andò a comprarle un regalo, un paio di scarponcini, che non le piacquero, così andò a cambiarli. La sera si ritrovarono a casa dei genitori per la cena. Squillò il telefono. «Mio padre fece per alzarsi, ma lui lo bloccò dicendo “è mia”. Tornò rosso paonazzo, con delle goccioline sulla fronte. Papà gli disse che se aveva caldo poteva levarsi il maglione. Lui rispose “non è il caldo, sono altri i problemi”. Il giorno dopo lo invitai di nuovo a casa da me a mangiare le caldarroste, colsi l’occasione per chiedergli cosa fosse accaduto la sera prima, lui tagliò corto: “Vi piacerebbe saperlo!». Il martedì il padre Domizio lo accompagnò a Imola, per l’ultimo viaggio verso Cosenza.

LA SCOPERTA DELLA MORTE

La narrazione procede a ritroso, fino al momento della tragica scoperta. «Il 18 novembre ero a cena a casa da amici. Quando il mio ex marito arrivò era bianchissimo in volto, mi disse “Donata preparati, dobbiamo partire. Denis ha avuto un incidente”. Partimmo insieme ai miei genitori e, nel tragitto, ci disse cosa aveva saputo, e cioé che Denis si era buttato sotto a un camion. Arrivati in Caserma a Roseto – va avanti la donna -, ci dissero di andare in ospedale a Trebisacce ma la camera mortuaria non era ancora stata allestita e così tornammo a Roseto per parlare con il brigadiere Barbuscio. Il piantone ci disse che avremmo dovuto aspettare perché Barbuscio “doveva farsi la barba”.

Fecero entrare solo papà, che uscì con in mano l’orologio di Denis e una busta gialla, Barbuscio invece aveva una foto polaroid. A mio padre fu riferito che Denis si era buttato sotto un camion, che era stanco del calcio e stava per imbarcarsi per Taranto». A Donata e ai suoi familiari, però, qualcosa non tornava: ad esempio, l’orologio ancora funzionante, eppure il corpo era stato trascinato per 60 metri. Così, decisero di compiere un sopralluogo nella piazzola, lì poco distante era parcheggiata la Maserati, «era “pulita”, anche le gomme erano pulite – dice -, tuttavia ricordo che c’era fango perché quella notte aveva piovuto». Nell’ auto, il portafogli con dentro un assegno, denaro in contanti, circa 500/600 euro, un dollaro e una marca da bollo.

L’ABORTO DI ISABELLA

Un altro salto all’indietro nel tempo e si torna, poi, dritti al 1997: l’anno dell’aborto della Internò. Bergamini chiese aiuto alla sorella perché la sua fidanzata di allora (unica imputata per l’omicidio, ieri assente in aula, ndr) gli disse di essere incinta di cinque mesi e mezzo ma lui “non si fidava”. «Telefonai al mio ginecologo per farla visitare – spiega Donata -, loro salirono insieme a Ferrara e l’ecografia confermò la gravidanza. Mio fratello diceva che lui avrebbe riconosciuto il bambino, ma era lei a voler abortire perché “tuo fratello non mi sposa”, diceva. Ricordo che urlava come una pazza. E siccome in Italia non era possibile farlo, Isabella si rivolse ad una zia di Torino che aveva contatti con il Partito Radicale e che l’avrebbe indirizzata in una clinica privata di Londra. Al telefono la zia ci disse che sarebbe stato un “disonore” tenere il figlio senza sposarsi».

IL RACCONTO DI ISABELLA

Prima l’autostop a 5 macchine, o 3, poi un sorriso, infine il lancio sotto al camion, dicendo di voler lasciare il calcio e partire per l’estero. “Ti lascio il mio cuore, ma non il mio corpo”, queste sarebbero state le ultime parole pronunciate da Denis nella versione dei fatti fornita a Donata dalla Internò, che la ripeteva «come un disco rotto».

L’AUTOPSIA E LE PAROLE DI ABBATE SULLA TESI DEL SUICIDIO DI BERGAMINI

L’esame del pm Primicerio prosegue con il momento del riconoscimento del corpo e dell’autopsia (mancata). Nella camera mortuaria dell’ospedale c’erano i dirigenti Serra e Ranzani, la prima ad entrare – ripercorre Donata – «fui io e mi sentii male perché vidi il volto di mio fratello intatto, aveva soltanto una macchia tonda sulla tempia sinistra. Sembrava dormisse. Ci dissero che non potevamo toccarlo, noi di nascosto sollevammo il lenzuolo: aveva i calzini e, all’altezza delle parti intime, un sacco nero».

Nemmeno l’ombra delle scarpe – che ieri sono state mostrate in aula insieme ad altri oggetti appartenuti a Denis -, né dei vestiti, che, a detta di un infermiere, erano stati «messi in un sacco nero e portati all’inceneritore». Per quel che riguarda, invece, l’autopsia, non fu mai disposta dall’allora procuratore di Castrovillari Ottavio Abbate: quest’ultimo, nel corso dell’interrogatorio di Donata del 2 dicembre ‘89, dirà, con tono criptico ma non troppo, “Sappiamo che non è stato un suicidio, ma siamo in Calabria…”. La deposizione di Donata Bergamini proseguirà il 31 marzo, ma per il controesame degli avvocati Pugliese e Cribari potrebbe volerci un’udienza in più.

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