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IL MEZZOGIORNO muore come la Basilicata. Cadono quotidianamente simboli, come la Città della Scienza a Napoli, la Casa del Gladiatore a Pompei, l’Agorà della città greca metapontina,gli esercizi commerciali ed agricoli, nella indifferenza generale. Come mai?

Perché altrove, nel resto dell’altra Italia, tutto questo non  succede? Perché non si registra  il  medesimo immobilismo? La risposta   delle persone di giudizio è semplice e netta. E’ l’uomo  del  Sud che  deve cambiare  con  le  sue  abitudini, convenienze, con  le  sue  ataviche dipendenze. Il Mezzogiorno, per prima la Basilicata, per adeguarsi ai tempi  ha  bisogno non solo di infrastrutture, di innovazioni e di  modernizzazione dei servizi primari ma, lo sottolineiamo con forza, ha  bisogno soprattutto di “capitale  sociale”, cioè  quel corpus   di regole che facilitano la collaborazione  all’interno dei gruppi o tra di essi.

Il capitale sociale si   riferisce   a quei beni intangibili che hanno valore piu’ di ogni  altro nella vita   quotidiana  delle  persone: precisamente la  serietà, la  coerenza morale, la solidarietà, il  senso di   appartenenza tra  individui e  famiglie  che  compongono un’unità sociale. Il capitale  sociale è una   risorsa   collettiva. Una comunità estesa  o   piccola , dove  prevalgono coerenti   e   sane   relazioni interpersonali, sarà una comunità  coesa  in   grado  di  mobilitarsi  per il raggiungimento di obiettivi comprensibili e condivisi, capace di trovare un accordo su questioni d’interesse generale.

La  qualità di simili relazioni (lealtà, onestà, coerenza) è  una risorsa collettiva: relazioni di  fiducia, senso di gratitudine, reciprocità che  aiutano a  risolvere  i problemi generali. Secondo un’autorevole corrente di pensiero il vero problema che assilla il  Mezzogiorno è la “questione antropologica”, quella che ha minato  alle  basi  il mancato sviluppo del Sud.  Il noto politologo e sociologo Robert Putnam,  nel  suo  libro  intitolato “La   tradizione civica nelle  regioni italiane” (1993), sostiene  che  il  sistema   di norme   sociali   che  regola i comportamenti nel Mezzogiorno ha influito negativamente, rispetto alle  regioni   settentrionali del Paese, sull’efficienza e  l’efficacia delle  istituzioni  locali e  sullo sviluppo.

L’opinione  del meridionale – ha  osservato  Putnam – è quella secondo cui, ricorrendo  alle furbizie, alle convenienze, ai trasformismi, (il ceto medio è l’esempio), l’unica regola che disciplina la civile convivenza è la dipendenza psicologica dal potere forte, dal partito che governa.

E’ utile, al  riguardo , riprendere alcuni passi dell’ articolo di Carlo Cipolla, apparso qualche tempo fa sul Sole 24 Ore, là dove afferma: “Pochi sono coloro che hanno capito e capiscono che il vero problema del Mezzogiorno non è un problema economico. E’ un problema di mentalità, di modi di vivere, di cultura, di codici di vera moralità”. Naturalmente, Cipolla non è il solo studioso ad aver delineato in modo così netto i fattori socioeconomici alla base del sottosviluppo del Mezzogiorno; ci ha pensato, in tempi non sospetti, lo studioso Edward Banfield, dopo il secondo dopoguerra, quando declinò con indagini statistiche fatte sul campo i risvolti negativi del “familismo amorale” in Basilicata. Nonostante tutto, quelle lezioni fatte alle classi dirigenti di allora e di oggi sono valse e non valgono perché è il cervello, la mentalità del meridionale che si rifiuta di cambiare.

Altrettanto sincero è il giudizio di Michele Ciasullo, un intellettuale irpino, a proposito della decadenza del Mezzogiorno, quando afferma che : «La politica non più in grado né di conservare il passato né di promettere il futuro, ha perso il controllo di un territorio oggi più che mai inscindibilmente legato al destino dei suoi abitanti. Manca in questo momento nel Sud un pensiero collettivo forte, un atto d’intelligenza collettiva capace di produrre un progetto per la Terra di Mezzo”.

Alla luce di un così pessimistico contesto, ne discende che ogni persona che si sente libera, nel proprio piccolo, debba porsi la seguente domanda: farsi scivolare le cose addosso in piena indifferenza o cercare di lottare, impegnarsi per cambiare la testa delle persone? E’ complesso rispondere quando, guardandosi in giro, si constata che quelle istituzioni, ritenute primarie, per statuto o per decoro proprio, che potrebbero cambiare lo stato delle cose, sono le prime a mostrarsi prone e servili verso la volontà e le esigenze del potere costituito. Allora di cosa stiamo parlando se la situazione sociale e culturale è  prigioniera delle proprie paure e delle personali necessità? Tuttavia, stentiamo ancora a credere che in giro ci siano persone perbene, tante persone che in buona fede possono concorrere a migliorare la situazione generale. Occorre solo crederci e mettersi in gioco. Bisogna fare una riflessione collettiva sul ruolo possibile del nostro Mezzogiorno, possibilmente ideologicamente trasversale, che parta da una visione organica delle sue intrinseche potenzialità di sviluppo, che pure ci sono, data la posizione felice di questa terra crocevia tra Adriatico e Tirreno e fra nord e sud del Paese.

Una terra a cui non manca la montagna, il mare, la bellezza e la fertilità. L’idea di creare una nuova consapevolezza, per concludere, un nuovo senso di responsabilità esistono, si punti con la  forza alla ricostruzione dell’amor proprio come prerequisito essenziale della libertà della persona e del suo sviluppo.

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