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POTENZA – Mentre vanno avanti le indagini della Procura di Potenza coordinate dal sostituto procuratore Salvatore Colella, per individuare le responsabilità del disastro ambientale provocato da Fenice, emergono elementi inquietanti dalla relazione a firma del professor Francesco Fracassi, ordinario di Chimica all’Università di Bari, alla base dell’inchiesta sulla “macchia nera”. E’ stato proprio lui a stabilire per la prima volta lo stato, la storia e le le responsabilità della grave contaminazione delle acque di falda provocata dall’inceneritore di San Nicola. E’ anche sulla base delle risultanze di questa perizia che si è arrivati alla clamorosa svolta dello scorso ottobre, che ha portato ai domiciliari l’ex direttore generale dell’Agenzia regionale per l’Ambiente, Vincenzo Sigillito e il coordinatore del dipartimento provinciale di Potenza, Bruno Bove. Sono due le conclusioni più importanti a cui giunge il consulente tecnico, nominato, a ottobre del 2009, dalla Procura di Melfi: “la falda acquifera – scrive il perito nella sua relazione – è stata interessata da una grave contaminazione di metalli pesanti e solventi, anche cancerogeni”. E, aggiunge, “la contaminazione è ancora attuale”. Il professore conclude: “Non c’è alcun ragionevole dubbio per dubitare sul fatto che la presenza di inquinanti sia da addebitare all’attività di Fenice” . Ma, soprattutto, il professor Fracassi stabilisce con certezza, per la prima volta, che “tale contaminazione risale a poco dopo l’avvio del termovalorizzatore, molti anni prima di quando la stessa è stata resa nota”.
Un passo indietro per inquadrare la vicenda: a marzo del 2009 l’Arpab rende noto per la prima volta che Fenice sta inquinando. La Procura della Repubblica di Melfi apre un’inchiesta e, a ottobre del 2009, il sostituto procuratore Renato Arminio conferisce l’incarico di consulente tecnico al professor Fracassi. Al momento dei fatti è noto che è in corso la contaminazione, ma non si sa sa da quanto e con quali responsabilità. Dunque, il perito dovrà stabilire a quando risale l’inizio dell’inquinamento, se sia di responsabilità di Fenice, con quali danni per la qualità delle acque. Dovrà pure appurare eventuali condotte omissive nella segnalazioni alle istituzioni competenti. La relazione viene consegnata a maggio del 2010. Alla luce dei risultati dell’inchiesta sappiamo bene com’è andata a finire.
Conclusioni a cui il docente dell’Univesità di Bari arrivava sulla base di atti Arpab e Fenice, che fino a quel momento, però, non erano mai stati resi noti. Ma leggendo la relazione emergono altri elementi molto importanti. A partire dalla premessa: il professore spiega che, constatato subito l’inquinamento in corso, per avere informazioni più dettagliate sullo stato chimico delle acque, suggerisce al pubblico ministero di richiedere ad Arpab di procedere con urgenza al prelievo e all’analisi dell’acqua dei pozzi. Questo soprattutto per stabilire se la contaminazione sia pregiudizievole per l’uso delle acque da parte degli agricoltori della zona. “Nonostante i dati richiesti fossero indispensabili – scrive il professore nella relazione – e nonostante i vari solleciti, alcuna delle analisi richieste è stata consegnata al sottoscritto da parte della Procura di Melfi o da parte di Arpab».
Fracassi, a esempio, scrive pure che “solo dopo che l’Arpab si è decisa a rendere pubblica la situazione di contaminazione, Fenice si è adoperata in maniera adeguata a individuare le fonti di inquinamento e limitare la diffusione con interventi concreti e risolutivi”. Il professore aggiunge che da quando si è diffusa la notizia della contaminazione il sito è mutato più volte e quindi non è stato per lui possibile stabilire se l’inquinamento interessato sia stato determinato dal mal funzionamento dell’impianto o dall’imperizia dei responsabili dell’azienda.
Ma nella relazione, cè di più. Molto di più. Spunta fuori, a esempio, un pagamento che Fenice non avrebbe mai versato alla Regione Basilicata, come contributo per le attività di monitoraggio. All’interno del piano di monitoraggio del Vulture Melfese, approvato con delibera di giunta del novembre del ‘99, come strumento per controllare l’incidenza delle attività dell’inceneritore sul territorio, e con successiva integrazione del 10 aprile del 2000, viene previsto che Fenice contribuisca con 700.000.000 di lire all’anno, per due anni, alle spese sostenute dalla Regione per la realizzazione e la gestione del programma. Il professore scrive: “Non risulta che questo versamento sia stato effettuato, in quanto i responsabili di Fenice non sono stati in grado di mostrare le relative ricevute, nonostante le ripetute richieste del sottoscritto”. Caso vuole che a firmare il sollecito di pagamento a Fenice, nel 2002, sia propio Vincenzo Sigillito, che in quel momento ricopre il ruolo dirigente del dipartimento Ambiente della Regione. Dunque, Sigillito, per conto dell’ente, sollecita. Fenice non paga. E fa di più. Risponde alla Regione. Ma non in merito alla richiesta del pagamento.
Scrive per dire che “l’attività di monitoraggio svolta non ha evidenziato alcuno stato di inquinamento”. “Tutti i parametri monitorati – aggiunge la società – si sono mantenuti su livelli di non significatività ambientale”. E proprio in vista di questi risultati, Fenice suggerisce di porre l’attenzione solo su determinati parametri chimici. Ma Fenice mente. Scrive però il professor Fracassi: al momento in cui veniva scritta la lettera “lo stato di inquinamento in atto era già conosciuto da Fenice”. “Lo stato di inquinamento da Nichel si era aggravato dal novembre del 2000, mentre quello del piombo era iniziato nel febbraio del 2000”. E questo Fenice lo sapeva perché emergeva dalle analisi condotte nei suoi stabilimenti di Rivoli. Ma invece di allargare il raggio delle indagini, suggerisce di limitarle, prendendo in considerazione solo pochi elementi. Il professore nella relazione aggiunge: “Le analisi eseguite riguardavano solo pochi parametri e nemmeno i più importanti”. “Ciò ha impedito di evidenziare con la dovuta celerità la gravità della situazione”. Con precisione, i parametri riportati nei referti d’analisi di Fenice sono solo una minima parte di quelli previsti dalla normativa all’epoca vigente per la caratterizzazione delle acque sotterranee. “Gli inquinanti prescelti non erano assolutamente idonei” a evidenziare situazioni di inquinamento. “Questo comportamento di Fenice – scrive Fracassi – non è assolutamente giustificabile, perché gli indizi della contaminazione erano ben evidenti”. “Anche il tecnico più sprovveduto in queste condizioni avrebbe approfondito l’indagine”. Questo per quanto riguarda le analisi condotte da Fenice. Per quelle di Arpab, un capitolo a parte, che conosciamo tutti molto bene: dati mancanti, nascosti, imprecisi, con un unità di misura incomprensibili e sballate. Questo almeno fino al 2007. La conclusione è ancora più inquietante: «Anche quando – aggiunge Fracassi – dai pochi parametri oggetto di misurazioni venivano riscontrati superamenti rispetto alle soglie consentire dalle legge, né Fenice né Arpab lo hanno segnalato alle istituzioni competenti, così come previsto dalla legge».

Mariateresa Labanca

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