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POTENZA – Un applauso lunghissimo, scrosciante, così insistito che persino gli altoparlanti tutto d’un tratto hanno iniziato a vibrare. Non per l’uscita dei feretri diretti al camposanto. Non per l’abbraccio ai familiari delle vittime della strage. C’è voluto il gesto di una donna minuta sopraffatta dal dolore, che a fatica è riuscita a raggiungere il pulpito della chiesa di Santa Maria delle Grazie, per mandare un segnale ai familiari dell’ultimo uomo di Genzano, il mostro che in tanti vorrebbero bandito dal paese, in carcere a vita, giustiziato nella maniera peggiore, o esposto alla pubblica gogna, perchè riceva quello che si è meritato. Si è dovuta fare forza Maria Grazia Di Palma, sorella di Ninetta, come la moglie di quel poliziotto ucciso assieme al giudice Falcone, la consorte e due colleghi della scorta, che dal duomo di Palermo gridava ai responsabili della strage di pentirsi, e piangeva perchè temeva che non l’avrebbero fatto. Anche Maria Grazia ha dubitato fino all’ultimo momento («Questo non so se ce la faccio»), ma ha trovato al suo fianco il sostegno del padre spirituale e del vescovo di Acerenza e le parole le sono uscite d’un fiato: «Da noi i familiari dell’assassino non devono temere niente, perchè noi, le famiglie Menchise e Di Palma, siamo gente per bene». Così per qualche istante la cappa che opprimeva le migliaia di persone presenti si è dissolta in quel vibrare di altoparlanti.
Genzano il giorno dei funerali delle vittime del massacro della vigilia è ancora un paese che non riesce a elaborare l’accaduto. Ieri mattina in migliaia sono accorsi anche dai paesi vicini per accompagnare le salme di Ninetta, Matteo e Maria Donata dalla camera ardente alla chiesa grande, e di qui alla loro ultima destinazione. La maggior parte è stata costretta a seguire la funzione all’esterno dal momento che i banchi si sono subito riempiti.
Di perdono per l’assassino non si parla, ma la tensione per un dramma che ha coinvolto una famiglia intera è talmente forte che spesso si traduce in parole rabbiose e desiderio di una vendetta ceca e furiosa allo stesso tempo. Sulla vetrina della lavanderia dei Menchise all’incrocio tra via Vulture e via Verdi il tributo floreale di amici, conoscenti e compaesani è andato avanti ininterrotto. Alle rose e i gigli si sono aggiunti i ceri della fiaccolata di mercoledì. Al secondo piano della casa adiacente, dove viveva Ettore Bruscella, il pensionato autore della strage in carcere da una settimana, le tapparelle della finestra sono abbassate, e si ha l’impressione che anche la moglie si sia trasferita altrove. La gente lancia sguardi di traverso alla porta chiusa, ma nessuno, almeno fin ora, si è lasciato andare ad atti di tipo vandalico che pure in molti coltivano senza farne neanche segreto. I più non riescono a concepire la possibilità che Bruscella ottenga i domiciliari, come previsto dal codice per gli ultrasettantenni, soprattutto lì dove è nato il contrasto che è degenerato con la morte di Ninetta Matteo e Maria Donata. Anche tra i parenti, alla partenza del corteo funebre verso il cimitero, c’è chi ha invocato giustizia sommaria per l’accaduto («Quell’infame non doveva essere in carcere adesso, doveva stare in piazza Roma»). Ma fintanto che resiste l’altare costruito dalla gente che è accorsa per vedere il luogo della strage, con i segni dei pallettoni ancora impressi sul vetro del negozio dei Menchise, ogni gesto inconsulto saprebbe di una specie di dissacrazione. Più avanti si vedrà e sarà la prova più difficile per la comunità di Genzano, dove nessuno ricorda un fatto simile prima d’ora.
Intanto la famiglia di Bruscella vive ancora lì e si è dissociata subito dall’accaduto condannando il padre per le sue azioni, anche se a qualcuno non sono apparse espressioni sincere quelle stampate sul manifesto affisso in paese, che di fatto è stato subito rimosso. Per questo il gesto di Maria Grazia Di Palma ieri mattina ha scosso nel profondo gli animi di tutti. Se resterà impresso si vedrà soltanto col passare del tempo.

Leo Amato

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