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COSENZA – Il piano di razionalizzazione con il quale Poste Italiane ha chiuso 1096 uffici postali in tutta Italia, di cui 89 solo Calabria, è da annullare. Anzi: è annullato. Lo ha deciso due giorni fa il Tar del Lazio che, per la prima volta, ha sancito a livello nazionale l’illegittimità dei criteri adottati da Poste per tenere aperti gli sportelli, sinora basati unicamente sulla effettiva redditività delle singole filiali, a evidente scapito degli interessi degli utenti. Il giudice amministrativo ha invece ritenuto che a fondamento delle scelte organizzative vi debba sempre essere prima di tutto il pubblico servizio.
La vicenda – che arriva a questo punto in un momento delicato del riassesto aziendale di Poste Italiane, sempre più verso la privatizzazione – nasce con il ricorso presentato dal Comune di San Pietro in Guarano (Cs) (ma è in attesa di esito anche la medesima istanza presentata dal Comune di Aprigliano) davanti al Tar della Calabria contro la chiusura della filiale di contrada Redipiano. Tar che aveva accolto la richiesta cautelare e aveva fatto riaprire l’ufficio fino alla sentenza. Ma per il merito, il tribunale amministrativo catanzarese aveva rinviato il contenzioso al Tar Lazio, che è il giudice competente sui ricorsi contro provvedimenti che hanno efficacia ultraregionale.  Con la sentenza 1117 del 29 gennaio scorso la terza sezione del Tar nazionale ha accolto il ricorso, aderendo alla tesi difensiva proposta dall’avvocato Salvatore Alfano di Cosenza, che in modo originale ha dimostrato l’illegittimità della normativa ministeriale di riferimento per contrasto con il diritto comunitario, e in particolare con la direttiva 6/2008, recepita nel diritto interno con il decreto legislativo 58/11.  
«A livello europeo, infatti – spiega il legale – si è pacificamente riconosciuto che le reti postali, anche in zone rurali e scarsamente popolate soddisfano interessi pubblici rilevantissimi, consentendo l’integrazione degli operatori economici con l’economia globale, ponendosi come fondamentale baluardo della coesione sociale, per cui la loro presenza è più necessaria laddove, proprio per la scarsità degli abitanti, mancano altre reti infrastrutturali. Tali principi erano, nei fatti, sinora assolutamente pretermessi nel nostro sistema nazionale, che attraverso il predetto decreto ministeriale del 7 ottobre 2008, in modo alquanto miope, legava la presenza dei punti di accesso alla rete alla percentuale dei residenti, consentendo, quindi, la chiusura delle filiali poste in aree poco popolose, magari non remunerative sul piano economico, ma indispensabili sotto il profilo sociale». 
Il Tar Lazio ha ora fatto corretta applicazione della normativa europea e in particolare  «la direttiva comunitaria ed il decreto legislativo hanno posto un particolare accento anche sulle esigenze degli utenti, in particolare delle zone rurali e di quelle scarsamente popolate; esigenze che non sarebbero rispettate col solo criterio di ragionevolezza basato sull’equilibrio economico come presupposto per la permanenza di uffici postali in territori particolarmente disagiati. È quasi superfluo rilevare come nell’ambito di un servizio pubblico l’equilibrio economico non possa assumere la stessa determinante rilevanza che assume nella gestione di una impresa privata». Si tratta di una pronuncia assolutamente innovativa, anche perché è la prima decisione di merito relativa all’impugnativa della normativa ministeriale, che ha portato all’affermazione di principi difficilmente contestabili sul piano logico e giuridico, anche in periodi di spending review: gli interessi sociali non possono essere sottomessi all’esasperata ricerca dell’utile. Naturalmente Poste Italiane farà ricordo al Consiglio di Stato, ma il ora il precedente giuridico esiste. E su tale principio di “utilità sociale”, anche gli altri Comuni italiani che hanno visto chiudere i propri uffici postali potranno fare ricorso.

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