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Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in videoconferenza

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OGNUNO gioca la sua partita e perde di vista l’interesse nazionale. Ognuno si alza, dice la sua e recita una volta la parte del virologo, un’altra del presidente del Consiglio e un’altra ancora quella dell’imprenditore. Eccoli i presidenti di Regione ai tempi di una pandemia che ha stravolto il mondo intero. Quindici di centrodestra, cinque di centrosinistra. Insomma, quindici a cinque per l’opposizione di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi. Eccoli allora nella videoconferenza su Zoom, convocata dal premier Giuseppe Conte, dal ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia, dal capo del dicastero della Salute, Roberto Speranza, per definire le misure del quarto Dpcm in quindici giorni.

Nel corso della prima ondata i protagonisti dei territori avevano battuto i pugni a colpi di  più autonomia e dunque più potere. E ora? E ora preferiscono ritrarsi usando formule del genere: «Caro presidente, le scelte impopolari toccano a te». Concetto che ribadiscono tutti. Nessuno escluso. Eugenio Giani, fresco di elezione nella rossa Toscana con la casacca del Pd ma di rito renziano, lo mette a verbale in un’intervista alla Stampa: «Il governo fa bene a discutere insieme alle Regioni le nuove misure di contrasto al virus, ma è giusto che alla fine ci sia una decisione nazionale perché i provvedimenti devono essere il più possibile omogenei». Il refrain è: rimandare la palla dall’altra parte del campo, costringere l’esecutivo a pronunciare la parola che non avrebbe mai voluto più pronunciare: lockdown. Sentite Alberto Cirio, presidente del Piemonte in quota centrodestra: «È una giornata importante e delicata e dobbiamo essere molto lucidi e razionali, per raggiungere le scelte giuste per i nostri territori. Le misure devono essere necessariamente nazionali, perché dalla Valle d’Aosta alla Calabria il virus c’è ovunque e sta crescendo ovunque».

Poi certo c’è chi lo fa perché forse ha velleità da leader nazionale. Luca Zaia è il presidente con l’indice di gradimento più elevato. Non solo è stato rieletto per la terza volta ottenendo percentuali bulgare. Non solo svetta nei sondaggi superando il premier Conte, ma le malelingue confessano che sarebbe assai gradito da un pezzo di Lega e di centrodestra per sostituire Matteo Salvini.  C’è infatti chi lo vorrebbe come capo dell’opposizione, come volto di una destra europeista, popolare, che collabora con la maggioranza, non citofona e non soffia sul fuoco. «Ci vuole un un provvedimento nazionale e poi per le cose di minima ognuno a casa sua si attiverà» argomenta il Doge.

Nella lista degli attori protagonisti non può certo mancare Vincenzo De Luca, alias “Lo Sceriffo”. Dopo aver annunciato un lockdown regionale, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca ha chiesto all’esecutivo l’adozione di misure di prevenzione e contenimento del contagio «semplici e di carattere nazionale». Una giravolta da campione del trasformismo. Ma tant’è. Nel giro di poche settimane Giovanni Toti è passato dall’essere elevato a leader della destra presentabile a «impresentabile» e «fascista». Tutta colpa di una uscita infelice sugli over 70 cui poi sono seguite le scuse ufficiali.

Insomma, il quadro è più o meno questo. E questa scena si ripropone ogni qualvolta c’è un vertice fra lo Stato e Regioni. E si è riproposta ieri in occasione dell’ennesimo tavolo tra Palazzo Chigi e i presidenti dello Stivale. Questa volta però è intervenuto Sergio Mattarella chiamando proprio Toti e Bonaccini. E li ha zittiti tutti quanti. L’inquilino del Colle ha auspicato «la più stretta collaborazione tra tutte le istituzioni dello Stato». A questo punto i toni sembrano essersi abbassati. Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna e alla guida della conferenza delle Regioni, ha convenuto: «Ora più che mai dobbiamo mettere da parte appartenenze politiche e geografiche». Gli ha fatto eco l’ex azzurro Toti che ha garantito «la più stretta collaborazione». Tutto finito? La notte è lunga e il nuovo Dpcm appare ancora lontano.


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