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La Cgil di Basilicata è uscita allo scoperto con una proposta sulla rinascita lucana articolata in 10 punti.

È partita dalla premessa della carenza nelle dichiarazioni programmatiche del governatore Pittella  di una «visione d’insieme, un sogno possibile che è progetto concreto a partire dalle 3-4 questioni che la crisi consegna alla Basilicata».

Osservazione fondata che inficia notevolmente sia l’intero discorso programmatico fatto dal governatore e sia ciò che è emerso nella logorroica maratona del conseguente dibattito in consiglio regionale che ha reso di fatto l’organismo in questione un “ciarlatoio”, come direbbe Marx.

Purtroppo, la stessa obiezione va fatta al sindacato: è vero che solo parzialmente spetta ad esso l’elaborazione di un disegno, di un progetto Basilicata , rappresentando soltanto una parte degli interessi in gioco, ma è pur vero che uno sforzo tutti gli attori sociali possono farlo per aiutare il presidente Pittella ad uscire dalla quotidianità politica delle liste della spesa.

Scrivere il secondo capitolo dell’Obiettivo Basilicata 2012, partendo dal piano del lavoro predisposto dalle tre organizzazioni sindacali regionali e dai 10 punti avanzati dalla Cgil, non credo che sia sufficiente per far uscire  la Basilicata dalla “tempesta perfetta” in cui naviga.

Il metodo di programmazione richiede ben altro, in termini di analisi , proposta, organizzazione ed implementazione delle azioni.

Nelle proposta Cgil non c’è una trama, a cui appoggiarsi, non si intravvede il modello socio-economico da perseguire e cosa più rilevante non ci si è voluti sporcare le mani, entrando nel vivo di ciò che sta succedendo in questa prima fase della consiliatura.

La proposta di investimenti basata su una domanda di beni collettivi mi sembra spiazzante rispetto alla attivazione di una domanda di beni e servizi individuali che meglio risponde all’esigenza di uscire in tempi immediati dalle gravi condizioni di povertà che riguardano larga parte delle famiglie lucane.  Le infrastrutture richiedono tempo di realizzazione che vanno ben al di là della congiuntura economica e comunque comportano un disegno del territorio che non c’è. 

Possibile che la riforma della pubblica amministrazione possa essere affrontata soltanto con «la drastica  riduzione dei dirigenti e delle funzioni apicali, con la stabilizzazione di tutti i precari delle pubbliche amministrazioni e per giunta con un piano straordinario di assunzioni nella sanità pubblica?  Quale giudizio danno i sindacati sul processo di rafforzamento della burocrazia regionale in atto che assomma burocrati esterni (4 assessori regionali) ai dirigenti soliti noti che passano da un incarico all’altro, un processo che non ha precedenti nelle istituzioni democratiche?   Si ritiene sul serio che si sconfigga il lavoro nero varando una legge e non prosciugando concretamente il bacino, da cui le imprese attingono? L’idea di  effettuare  trasferimenti monetari per i pensionati più poveri con progetti di inserimento in attività sociali può rappresentare una innovazione nel campo della inclusione sociale di soggetti deboli, aumentando il loro potere di acquisto come leva importante per far lievitare i consumi, ma va coniugata con le necessità di altri segmenti sociali deboli (i disoccupati over 50, i percettori di ammortizzatori sociali di fame, come rileva continuamente quanto inutilmente il mio amico Carmine Vaccaro, gli altri beneficiari di mobilità in deroga, ecc), una sommatoria di attori esclusi dal mondo del lavoro che investe circa 15 mila unità. Che ne facciamo? Non si ritiene che questo possa essere l’oggetto di un piano straordinario di lavoro che coinvolga la Regione, gli enti locali, le imprese? Possibile che la forestazione improduttiva (per dire le cose con il loro nome) debba continuare, replicando i cantieri di forestazione, pensando in tal modo di affrontare un problema gigantesco come quello del dissesto idrogeologico  e non sia arrivato invece il momento di orientare la forza lavoro in questione verso la cooperazione, la nuova impresa, mettendo in atto una struttura manageriale di gestione transitoria che accompagni gli interessati verso dignitosi, professionalmente parlando, progetti di vita lavorativa, come suggerisce da tempo la Uil? Dobbiamo ritenere il ruolo dell’Eni e della Total semplicemente ripiegato su nuove assunzioni nel settore estrattivo  e non orientato nell’ottica del suo fondatore, Enrico Mattei,  come volano per la crescita complessiva della comunità in cui si opera, finanziando, ad esempio, il piano straordinario di cui sopra, lo sviluppo dell’energia, puntando sulle biomasse, piuttosto che su improbabili progetti nella farmaceutica o nella chimica verde, come sostengono i burocrati regionali.

Il documento della Cgil parla di riforma e potenziamento dei centri per l’impiego e di proroga degli ammortizzatori in deroga con strumenti di inserimento lavorativo differenziati in base alle platee.  Sono affermazioni generiche e lontane dalla gravità dei problemi da fronteggiare: abbiamo platee immobilizzate nella palude dei sussidi e strutture di gestione molto inadeguate che richiedono  nuovi strumenti  con nome e cognome da mobilitare (agenzie interinali raccordate con i centri per l’impiego, una formazione  realmente finalizzata al nuovo lavoro autonomo o dipendente e soprattutto una azione di moral suasion degli addetti ai lavori (politici, sindacati, imprese,) che faccia capire agli interessati che le deroghe si stanno esaurendo e che occorre rimboccarsi le maniche per uscire dalla stagnazione assistenziale attuale.     

Si invoca la concertazione, ma per essere efficace occorre che ciascuno si faccia carico degli interessi generali, entro cui conciliare quelli della parte che si rappresenta.

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