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QUALCHE mese fa commentavamo da queste pagine la felice intuizione che il Senatore Margiotta -vice presidente della Commissione di vigilanza Rai- ebbe nel proporre in un servizio de L’Unità, un sostegno al teatro attraverso la creazione di un canale RAI tematico. Molti operatori culturali scesero in campo per dare sostegno all’iniziativa. Più che una scommessa sulla capacità e la volontà dell’emittenza pubblica a investire su un canale tematico dedicato allo spettacolo dal vivo, la discussione sulla nascita di RAI Teatro riaprì l’antico dilemma tra servizio pubblico e impresa audiovisiva. L’idea -stando ai numerosissimi commenti positivi- è apparsa subito come ulteriore miglioramento della proposta culturale dell’azienda.

«Il sostegno al teatro e alla lirica attraverso la creazione di un canale tematico è stato uno dei primi temi che ho affrontato dopo la elezione a vice presidente della Commissione di Vigilanza Rai. Investire in cultura –perché questo è il senso dell’operazione- è di per sé un risparmio, sempre, e lo è a maggior ragione in un momento come questo, in cui gli italiani non arrivano a fine mese. Oggi, la prima serata del giovedì di Rai5 è dedicata alla grande musica, con opere, concerti e balletti ripresi nei teatri e nelle sale da concerto più prestigiose. Un’operazione meritoria che risponde in pieno alla mission del servizio pubblico, perché da un lato sdogana forme d’arte ritenute di nicchia, e dall’altro permette alle famiglie di assistere –e rivedere sfruttando il web- performance e capolavori che la tv generalista snobba. Un modello a cui tutti i canali tematici Rai dovrebbero guardare, per costruire un’offerta alternativa e specializzata che vada incontro alle richieste del pubblico».

Solo sessant’anni fa l’Italia conosceva la televisione. Il mondo entrava nelle nostre case divenendo lo specchio delle loro vicende, narrandone la vita quotidiana e costituendo non solo un servizio pubblico ma un vero e proprio patrimonio nazionale.

Mamma rai è stata il punto di riferimento per tanti anni del popolo italiano. Oggi a sessant’anni da quel 3 gennaio ci si chiede quali siano le prospettive di una azienda vittima dell’inarrestabile boom mediatico.

«Un tempo la tv entrava nelle nostre case, oggi siamo noi a selezionare l’offerta e a scegliere in quale realtà addentrarci. In 60 anni la tv è nata, si è affermata, è esplosa, si è rivoluzionata e oggi si trova ad un bivio, tra passato e futuro, tradizione e innovazione, costretta repentinamente a plasmarsi sulle nuove esigenze del pubblico. Le prospettive? Una soltanto a mio parere, quella già trattata dal direttore generale Gubitosi: la trasformazione dell’azienda da broadcaster, che trasmette palinsesti a un pubblico indifferenziato, a media-company, che realizza e produce contenuti per tutte le piattaforme, compresi i terminali mobili, che commercializza diritti, che digitalizza produzione, archivi, comunicazione e procedure, che si rapporta con il singolo cittadino. Unica strada per restare competitivi sul mercato internazionale».

Da giorni si parla di tagli al bilancio RAI per adempiere alla spending review. Come conciliare risanamento e sviluppo, vecchio light motiv forse ancora attuale?

«Primo, eliminando gli sprechi, altra linea che l’attuale gestione ha adottato e imposto fin da subito e i costi cominciano a ridursi, a partire da quelli del personale, dell’1,3% annuo e più significativi in alcune voci dalla realizzazione dei programmi (16% annuo) ai servizi telefonici (-33% annuo), dai noleggi delle autovetture (-20%) alle trasferte (-5,5%). Un esempio virtuoso, il gruppo BBC: è esattamente il doppio del gruppo RAI in termini di entrate totali, ma ha un costo del lavoro e un numero di dipendenti che sono superiori solo del 40 e 70 percento, rispettivamente.

Il futuro di Viale Mazzini passa da queste riorganizzazione radicale da azienda radiotelevisiva pesante e «verticale» a un’azienda digitale e «orizzontale». La voce che non può risentire dei tagli è certamente la qualità del prodotto, la soddisfazione del pubblico, l’investimento in tecnologia che in tempi medio-lunghi produce risparmi.

Il direttore generale dell’azienda, Luigi Gubitosi, con la relazione tenuta in Commissione di Vigilanza, ha dichiarato che le misure previste dal decreto legge 66 (il famoso decretone Irpef), che coinvolgono anche la Rai, rendono «non più sostenibile» il Piano industriale 2013-2016 che era stato definito proprio dall’attuale management di Viale Mazzini.

Mamma Rai divisa tra una «sforbiciata» di 150 milioni e il desiderio di non rinunciare a nessuno, ma proprio a nessuno, degli infiniti pezzi del «carrozzone».

«Ferma restante la salvaguardia dei livelli occupazionali dell’azienda, bisogna armarsi di buona volontà per rispondere allo sforzo che il Governo ha chiesto a tutti, al fine, anche attraverso la misura degli 80 euro, di venire incontro ai cittadini in maggiore difficoltà. Leggiamo il sacrificio come un’occasione per pareggiare i conti e dare avvio alla riforma che porterà la tv di Stato a essere più moderna ed efficiente.

Ovvio che con l’impatto del decreto Irpef il piano industriale già presentato in Commissione di Vigilanza, così com’era stato pensato, non è più completamente sostenibile, e andrà rivisto. I vertici di Viale Mazzini avrebbero comunque scongiurato l’ipotesi di tagli lineari ai budget: facili da effettuare ma utili solo a mettere in ginocchio le aziende. Sulla finalizzazione delle operazioni per la cessione di una quota di minoranza di Rai Way, strada maestra per recuperare risorse, il cda si esprimerà soltanto nel prossimo autunno. Nel frattempo sappiamo che trattandosi della cessione di una quota di minoranza, la società continuerebbe ad essere sottoposta al controllo della Rai e non ci sarebbe da pagare alcun affitto per l’uso delle infrastrutture. Mi sembra una strada percorribile. E scommetto anche io che si recupereranno risorse anche maggiori di 150 milioni: molto maggiori, mi auguro. Altro che svendita, come insistono a dire i parlamentari cinque stelle!»

Margiotta, come vice presidente della Commissione di Vigilanza, ha sostenuto che è necessario «rivedere le modalità di riscossione del canone e riorganizzare l’offerta dell’informazione giornalistica, oggi eccessivamente parcellizzata.

«Sì, è necessario rivedere il canone, la tassa più sgradita, perché incide nella stessa misura su persone con redditi ben differenti, e più evasa dagli italiani e ripensare alla luce delle nuove esigenze la struttura organizzativa dell’informazione. Ha senso –mi domando- nell’epoca di internet mantenere tre canali generalisti, una rete all news, più una quantità elevata di canali di nicchia? Mi sono opposto, con un emendamento che è stato accolto dal Governo, alla possibilità di ridurre il numero delle sedi regionali perché sono convinto che la spina dorsale del servizio pubblico sia proprio l’informazione locale, così vicina e sentita dai cittadini, basta leggere gli ascolti dei tgR che non subiscono mai flessioni. É peró sacrosanto riorganizzare anche lì competenze e strutture, valutare nuovi metodi e collaborazioni per ottimizzare e risparmiare, ma garantendo la presenza dei giornalisti sul territorio.

Il «Partito della Rai» si prepara alla guerra e i sindacati sono divisi… Il sottosegretario alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli, è intanto al lavoro sulla riforma della tv pubblica, nel tentativo di arrivare entro l’anno a nuove regole sul canone e all’avvio della discussione sul rinnovo della concessione che scade nel 2016.

«La discussione sul rinnovo della concessione viene anticipata al 2015 e questo è un ottimo punto di partenza. Lo avevo proposto in tempi non sospetti e il Sott. Giacomelli ha dichiarato che è sua intenzione avviare al più presto una grande consultazione pubblica aperta a tutti, non solo agli addetti ai lavori. “Cosa vuoi dal servizio pubblico?”. Questo dobbiamo domandare ai cittadini, agli studenti, agli esperti, alle associazioni, ed estrarne una sintesi che faccia sentire tutti rappresentati. Le nuove regole saranno alla base del rilancio di un bene comune che fa parte di un welfare moderno e che contribuisce alla qualità della nostra democrazia, come abbiamo scritto a chiare lettere nel contratto di servizio Rai-Stato, approvato lo scorso mese».

Riuscirà il PD di Renzi a rimuovere le accuse che in molti rivolgono da decenni all’azienda culturale più importante in Italia?

«E’ una bella scommessa, ho già avuto modo di dire, alla Leopolda di Firenze, a settembre, che “se vuole cambiare l’Italia, Renzi deve anche riformare la Rai” e ne sono sempre più convinto. La radio televisione di Stato è stata per decenni lo specchio del Paese, in positivo e in negativo. Il primo passo da compiere è la riforma della governance, senza la quale non si può immaginare un cambiamento profondo. Trovata la soluzione più giusta, credo che la strada sia tutta in discesa».

Viviamo troppo velocemente e troppo velocemente tutto diventa passato. Occorre recuperare un senso tra passato presente e futuro. Una RAI diversa modificata può giocare un ruolo importante in questa direzione, perché la tv vive di libera espressione e muore di format patinati e senz’anima. La rai che vorremmo per sua natura e origine può contribuire a restituire una memoria e a ricostituire una comunità.

«Certo, pensiamo a ‘Quelli della notte’ o a ‘Indietro tutta’, programmi che hanno davvero radunato davanti al piccolo schermo un’Italia intera creando un’identità, un sogno comune, una memoria collettiva. Non c’è un solo genere ci sono tanti generi come non c’è un solo modo di fare intrattenimento, ci sono mille varianti e ciascuno deve poter scegliere, tra l’altro con l’aiuto dal web che oggi consente di crearsi un palinsesto su misura, davvero personalizzato».

 

Mi pare di capire che attraverso la televisione e la radio ha veicolato e veicola informazione, cultura e svago, esprimendo anche i sentimenti unitari della nazione, che ha contribuito a costruire con un comune linguaggio. È una grande avventura industriale, cominciata novant’anni fa, è un volano di sviluppo della tecnologia e una fondamentale impresa culturale, che si identifica con la crescita culturale e civile della società italiana.

 

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