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POTENZA – «Io sono stato condannato per essere il capo promotore assieme a D’Elia di un clan secondo l’articolo 416bis, ma quando hanno fatto gli arresti in tutti gli atti giudiziari che sono seguiti hanno sempre detto: “disarticolato… quei clan non hanno dato seguito”. Questo vuol dire che non era associazione di stampo mafioso come il legislatore ha inteso. Perchè in Sicilia sono 50, sono 60 anni che fanno gli arresti. E’ una catena di Sant’Antonio. Quando sono solo 2, 3 ragazzi non è mafia. Bisogna avere il coraggio di dirlo. Non è mafia quella. La mafia è un potere economico, è un potere politico militare. Non è un ragazzo solo».

Lo ha sostenuto con tono deciso ieri mattina Pierdonato Zito il boss 55enne di Montescaglioso sentito in videoconferenza col Tribunale di Potenza nel processo per i 10 omicidi irrisolti della faida esplosa in paese nei primi anni ‘90.

Zito, che ha appena compiuto i vent’anni di carcere da sommare a un breve periodo di latitanza, ha negato tutti gli addebiti accusando i pentiti «analfabeti» e gli investigatori di aver costruito un teorema contro di lui secondo una «regia» che prevedeva una risposta ai fatti eclatanti che erano accaduti ed erano saliti alla ribalta delle cronache nazionali. Senza andare troppo per il sottile.

«Questi fatti lo so che sono successi e sono sotto gli occhi di tutti». Sono state le sue parole. «Ma bisogna trovare le responsabilità di chi li ha commessi. (…) Io sono qua per difendermi e non posso e ho scelto di non accusare nessuno. Se io avessi scelto una strada diversa. Tutti questi collaboratori che dicono di sapere e non sanno  niente li avrei messi con le spalle al muro».

Rispetto all’omicidio di Cosimo Giannotta, la prima vittima di lupara bianca in Basilicata, “scomparso” nel 1991 mentre era al lavoro nella cava gestita dalla famiglia, Zito, assistito dall’avvocato Pietro Damiano Mazzoccoli, ha spiegato di non aver avuto nessun rapporto particolare con lui: né contrasti né un’amicizia particolare, ma soltanto una conoscenza dovuta al fatto di vivere nello stesso paese.

Quanto invece ai 2 morti e ai 6 feriti di quella che è stata ribattezzata la strage della pizzeria Peccati di gola, sempre nel 1991, il boss ha spiegato di non aver avuto nessun motivo di risentimento con Alessandro Bozza, che sarebbe stato il bersaglio del commando entrato in azione.

«Con Bozza ci siamo conosciuti in carcere ma non ero né associato con lui né contro di lui. Era una semplice amicizia».

Duro il confronto tra il pm Laura Triassi e l’imputato, “forte” del fatto che nessuno dei collaboratori di giustizia che lo avevano indicato come l’autore dei tre omicidi ha confermato in aula le accuse. Uno di loro, uscito dal programma di protezione e tornato in carcere, è stato trovato morto in cella non si capisce bene se per un incidente o soltanto voglia di farla finita.

«La domanda che dovevate fare ai collaboratori è un’altra». Ha insistito Zito in maniera provocatoria: «Ma voi siete stati detenuti nello stesso luogo? Perché questo era il modo di mettersi d’accordo. Non solo. Vengono trasferiti appositamente per stare insieme e mettersi d’accordo. Lo so io perché ho vent’anni di carcere sulle spalle e so storie incredibile su queste cose qua».

Nella prossima udienza fissata per il 7 ottobre verrà sentito anche Giuseppe D’Elia, considerato l’altro boss dell’omonimo clan di Montescaglioso.

l.amato@luedi.it

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