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POTENZA – Tiziana e Mario oggi sono felicemente sposati. All’epoca dei fatti – era il 2007 – erano semplicemente amici. «E abbiamo vissuto momenti davvero terribili».
A ricordarli oggi, Tiziana Magno ancora trema e gli occhi si velano. «Con il senno di poi ti rendi conto di quello che davvero hai rischiato, della solitudine, di come mi avesse fatto terra bruciata attorno». Ma all’epoca aveva poco più di 20 anni e Antonio Pagano era vicequestore di Potenza. Una persona conosciuta, all’inizio affabile, «che ti faceva regali, sorprese». Che trasmetteva sicurezza, anche per il suo ruolo prestigioso. Finchè non è diventato proprio lui il problema. Perchè era sposato e, a un certo punto, Tiziana si rende conto che quella condizione non può continuare. Non solo. «Era possessivo, mi aveva messo nella condizione di non riuscire più a essere serena. Non avevo più un’amica, mi parlava malissimo di tutti quelli che mi circondavano. E quando ci sei dentro non ti rendi conto di quello che sta accadendo. Ero isolata, parlavo solo con i suoi amici, non uscivo più».
Così la decisione di chiudere una relazione diventata troppo opprimente. «Cosa resa possibile grazie al grande aiuto della mia famiglia, i miei genitori e mio fratello. Che non è una cosa scontata». E quando Tiziana decide di chiudere inizia davvero il suo periodo più difficile. Perchè iniziano i pedinamenti, le telefonate continue sul cellulare e sul numero di casa, le “visite” sul posto di lavoro e a casa dei genitori. Una persecuzione. E a farle prendere coscienza di questa situazione è anche un amico, Mario Prete. Solo un amico in quel momento di solitudine. Perchè – racconta Tiziana – «non avevo nessuno con cui parlare». Che lo stesso Mario, in realtà, era stato avvisato: meglio stare lontano da quella ragazza. Ma lui resta lì. E questo “affronto” non viene perdonato.
Così il 9 ottobre del 2007 avviene il gravissimo episodio che ha portato mercoledì scorso alla condanna in primo grado del vicequestore Pagano. L’accusa è concussione ai danni di Mario Prete e la condanna è a due anni di reclusione e altrettanti di interdizione dai pubblici uffici, più un risarcimento di 5.000 euro. Solo che la stessa condanna prevede una «sospensione condizionale della pena».
Ed è questo che davvero non va giù a Mario. «Perchè dopo tutto quello che abbiamo passato, lui non sconterà nulla. E non credo che sia giusto. Una condanna minima, peraltro sospesa, arrivata dopo 8 anni. Altri due e anche questo capo di imputazione sarebbe caduto in prescrizione, come accaduto per il processo per violenza privata ai danni di Tiziana».
Una giustizia che davvero «non ha fatto giustizia».
La sera del 9 ottobre 2007 Mario ha temuto il peggio. Dopo il lavoro e un caffè con un amico stava tornando a casa. In auto chiama Tiziana e le racconta di avere l’impressione di essere seguito. Le dice di aver fatto anche un giro dietro al carcere per capire se quell’auto seguisse proprio lui. Era proprio così. Tiziana, al telefono, entra nel panico. L’auto affianca la sua autovettura e poi un uomo all’interno mostra la paletta dal finestrino. Mario si ferma, due uomini escono e gli chiedono i documenti. Lo fanno scendere, gli fanno domande sull’auto, gli fanno aprire il portabagagli.
Mario inizia a temere, ma il peggio non è ancora arrivato. Perchè il peggio arriva quando a lui si avvicina un uomo che i due agenti salutano con un “buonasera dottore”. E’ il vicequestore Pagano. Mario ancora non lo conosce fisicamente, aveva solo sentito parlare di lui. Ma capirà subito chi è, perchè il “dottore” inizia a minacciarlo: deve lasciare stare Tiziana. E comincia a fargli domande personali, per capire quale sia il reale rapporto tra i due. Mezzora in cui Mario si sente dire «Io ti sparo qua». Mezzora in cui un semplice cittadino è in balia di un poliziotto che gli sputa in faccia una decina di volte, urla al suo sottoposto che quello con cui ha a che fare è un drogato, che lo avrebbe fatto arrestare. Lo insulta e minaccia in ogni modo. «E se Tiziana si allontana o tu racconti di questo incontro a lei o a suo fratello, passerai i guai per tutta la vita».
Ma Mario, dopo il comprensibile spavento, decide di non farsi intimorire. E la mattina dopo, dopo una notte da incubo, decide di recarsi dai carabinieri per denunciare quanto gli è accaduto.
Tiziana, che era rimasta al telefono, sente tutto. E a quel punto capisce che anche lei deve mettere fine definitivamente a questa storia con una denuncia. E la mattina dopo, insieme al fratello, anche lei sporge denuncia davanti ai carabinieri. Qualche giorno dopo anche la scoperta di essere stata spiata, ascoltata e pedinata. Tiziana è nella sua auto, quando in via del Gallitello prende una buca e si stacca il coperchio dell’impianto di illuminazione. All’interno la sorpresa: un telefono cellulare collegato con due spinotti. Una decina di giorni prima aveva smarrito le chiavi dell’auto. Non aveva dato peso alla cosa fino a quella scoperta. Invece quelle chiavi erano servite per installare nella sua auto un telefono cellulare a risposta automatica e senza suoneria. Praticamente lui chiamava e tutte le volte che voleva ascoltava cosa Tiziana diceva nella sua auto. Per questo conosceva benissimo i suoi spostamenti.
Partono allora due diversi procedimenti, «che si muovono paralleli». E non è facile. Un vicequestore è uno che conta: «trovare anche solo un legale che ci rappresentasse non è stato semplice. Appena sentivano contro chi ci muovevamo ci dicevano no».
E intanto la paura è rimasta, «io ancora oggi – dice Tiziana – me lo sogno la notte. Quante volte sono stata avvicinata da suoi amici che mi invitavano a lasciar perdere. E io da Potenza sono dovuta andare via per trovare lavoro. Ma anche lontana, a Torino, avevo paura di ritrovarmelo sotto casa. Neppure il nome sul citofono avevo messo. Intanto lui, dopo le denunce, d’ufficio è stato trasferito a Salerno. Capirai che punizione, quella è casa sua».
Ora la condanna. Che non è una soddisfazione. Perchè Tiziana ha dovuto ricostruire la sua vita piano piano e sa che ancora non è finita, «perchè io non escludo di potermelo trovare davanti ancora. E poi anche a livello processuale, dopo otto anni siamo arrivati con fatica solo al primo grado di giudizio. La mia denuncia nel frattempo è caduta in prescrizione e immagino che ora si punti a far fare la stessa fine anche al processo in cui la vittima è Mario».
Eppure dall’altra parte c’era un uomo in divisa, «una di quelle persone che dovrebbero star lì a difesa dei cittadini. E io dovrei insegnare ai miei figli ad aver rispetto per quella divisa, a fidarsi. Difficile dopo quello che ci è accaduto. E questa sentenza non fa che confermare la nostra sfiducia. Noi ci siamo sentiti in trappola, dall’altra parte c’era una persona potente e armata. Che ha fatto esplicite minacce di morte. Ma che resta tranquillo al suo posto».

a.giacummo@luedi.it

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