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POTENZA – I figli dei Cassotta in affari di cocaina col referente del figlio di Riviezzi. L’asse criminale tra Melfi e Pignola ricostituito, come ai tempi della nascita dei basilischi e delle rapine nelle gioiellerie di mezza Basilicata nei primi anni ‘90.
E’ il quadro emerso dagli arresti dell’operazione Oscar condotta dalla sezione anticrimine della squadra mobile di Potenza per cui nove persone ieri mattina sono finite agli arresti.
L’accusa è di aver creato nel Melfese una consolidata rete di spaccio di stupefacenti, con una precisa suddivisione del territorio e l’utilizzo di persone per la vendita diretta della droga, che in alcuni casi usavano anche esercizi pubblici come «deposito» e locali per lo scambio di cocaina, hascisc e marijuana.
I particolari dell’operazione sono stati illustrati ieri mattina, a Potenza, nel corso di una conferenza stampa a cui hanno partecipato il Procuratore della Repubblica, Luigi Gay, il pm Francesco Basentini della Direzione distrettuale antimafia e il dirigente della squadra mobile potentina, Carlo Pagano.
Sono finiti in carcere Antonio Cassotta, Giuseppe Caggiano, Fabio Irenze e Lorenzo Sapio. Mentre per Vincenzo Donadio, Antonio Cardone, Giovanni Battista Ardoino, Sabino Sapio e Teodoro Gabriele Barbetta il gip ha disposto gli arresti domiciliari.
La droga veniva acquistata in diverse grandi «piazze» nelle regioni limitrofe, tra Campania, Puglia e Basilicata, e poi distribuita agli spacciatori locali dal vertice dell’organizzazione. Ma nel registro degli indagati sono finiti anche il titolare del bar Polo Nord di Melfi e il gestore del Marley pub di Rionero, accusati di aver fatto da intermediari in alcune cessioni di cocaina.
Le indagini sono cominciate nel 2012, grazie alle dichiarazioni di alcuni pentiti sui rapporti tra i clan Cassotta e Riviezzi. Poi si è scoperto che il giro di cocaina lungo l’asse Melfi-Pignola era ancora attivo e una parte dei proventi andava alle famiglie dei detenuti.
Ma non sono mancati «screzi» tra i due gruppi sulla suddivisione degli introiti da destinare a questo scopo, tant’è che il gip Luigi Spina parla dell’esigenza dei giovani Cassotta «di affrancarsi dal gruppo dei pignolesi (definiti “pagliacci”) ritenuti non affidabli per instaurare un rapporto diretto con esponenti della malavita calabrese».
Anche l’altro canale già attivato, Lorenzo Sapio, non bastava per soddisfare le mire del giovane Cassotta, Antonio, figlio del boss trucidato nel 2007. Ma sempre con l’autorizzazione dello zio, Massimo Cassotta, considerato il nuovo capo del clan anche se attualmente detenuto.
«A Lorenzo non gli voglio dare più niente! Io, mo’… La dobbiamo andare a prendere là. Polpe’ per me la possiamo pigliare quell’altra là! Quell’altra là! Però non è un granché… Possiamo prendere pure quella da 55… Vieni tu stesso con me la pigliamo… Ma noi mò dobbiamo andare a colloquio da zio Massimo, mi devo far dire un poco là com’è l’andazzo, dove mi vado a menare in mezzo agli schiaffi… Si è montato la capa, si crede chissà chi è».
«Non può sussistere dubbio – conclude il gip – che l’organizzazione si è creata e sviluppata lungo le direttrici fissate e volute da Antonio Cassotta e Giuseppe Caggiano (figlioccio di Massimo, ndr) ed è stata costantemente realizzata anche grazie all’opera di Irenze (Fabio, ndr), fedele e costante collaboratore , e di Lorenzo Sapio, punto di riferimento principale ed affidabile per la frequenza e costanza dei suoi rifornimenti di stupefacente, e si sia mossa con un altrettanto comprovato fine economico».

 

l.amato@luedi.it

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