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di CHIARA LOSTAGLIO
TORINO è al centro delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia. Con le giornate Lucane in Piemonte di un anno fa, si mantengono sempre vivi i contatti con i tanti lucani del capoluogo piemontese, e soprattutto le nostalgie mai sopite fra coloro che lì hanno vissuto e che, dopo alcuni anni, hanno avuto la possibilità di “rientrare” nei borghi di origine. Alcuni sono andati in pensione (come Giuseppe che faceva il tranviere) o come Donato, carrozziere che, per aver contratto una malattia, è stato costretto a ritornare per respirare l’aria natia. E con essi, la propria famiglia, composta in molti casi di due figli. Ernesto, invece, è rientrato da oltre trent’anni anni, e ora ci ha rimandato il primogenito, sempre per motivi di lavoro. Rocco invece lì ci ha lasciato il cuore, nel quartiere Vallette, che oggi – ci dice – non riconosce più, smembrato com’è dalla metropolitana leggera. Enzo ci ha soltanto studiato, una laurea in ingegneria in tasca e l’assunzione tredici anni fa in Fiat: già la Fiat, ma non più a Torino, bensì a San Nicola di Melfi. Giulio invece ha lavorato nelle Poste e poi è rientrato come Michele e Peppino, nella città natia, dopo aver chiesto un trasferimento che, dopo sei anni, è stato duro da accettare. Perché Torino in fondo attrae: con la sua aria sorniona lascia ampi spazi di nostalgia, per le persone, per i parenti lasciati ancora lì: per molti è stato l’unico modo di conoscere gli italiani, quelli del Veneto come della Sicilia. E’ la città di don Luigi Ciotti e del Gruppo Abele e Libera, di don Ermis Segatti e della Solidarietà internazionale, della Sacra Sindone e della Juventus, del Festival del Cinema-Giovane e del Museo nella Mole Antonelliana. Del Museo Egizio più importante d’Europa e della Fiat. Fiat ma non solo. Il Lingotto storico è casa di Cultura con la mostra del libro, e la metropolitana ha cambiato il volto delle stazioni, da Porta Susa a Porta Nuova. E la città del triangolo di magie, sotterranea ed oscura, almeno è quanto da conto certa letteratura noir. Vi è dunque una emigrazione verso la capitale piemontese che ha radici lontane: dal dopoguerra, interi nuclei familiari furono attratti come una calamita dal boom dell’auto: Fiat e Lancia, con i quartieri dormitorio di Porta Palazzo, delle Vallette, di Borgo Vittoria. Dai migranti con le valigie di cartone – che Visconti rese epici con “Rocco e i suoi fratelli” – molta acqua ha attraversato i ponti sul Po. I Murazzi sono adesso frequentati da studenti e da movide notturne, mentre molti sono gli immigrati di colore a rendere ancora più confuse le stradine contorte attorno a Via Po e Piazza Castello. Pianerottoli che un tempo ospitavano almeno due famiglie con il bagno in comune, in quella realtà grigia come il cielo dal colore plumbeo che il sole lascia a mala pena trasparire. La città dei siciliani, dei pugliesi, dei napoletani e dei lucani, che lì sono tutti “Terùn”, oppure semplicemente “Napuli”, in omaggio (o in dispregio) alla capitale del Sud. E’ quella Torino che racconta il regista Gianni Amelio nel suo film (Leone d’oro) “Così ridevano”. O che si intravede nel film dei siciliani Scimone e Sframeli “Due amici” (premiato a Venezia come opera prima). Eppure molti si sono integrati, occupano spazi di rilievo dopo aver studiato al Politecnico o a Medicina. Quelli intorno ai cinquanta-sessant’anni hanno assunto ormai l’aspetto piemontese, parlano benissimo la loro lingua vagamente francofona, il torinese, e forse tifano anche per il Toro. La Juve è invece il colore dei “terroni”, degli “sfruttati” di Agnelli, si diceva un tempo. Ora che la Fiat vive momenti difficili, (è ciclica la sua crisi, primi anni 2000) la città tende al decremento, ma la sua “cintura” tiene: quella che va da Settimo a Nichelino, da Grugliasco a Pianezza: moltissimi sono i lucani ancora da quelle parti, molti si sono organizzati dagli anni 70 in poi attorno alle Associazioni degli Emigrati: c’è la “Carlo Levi” (un tempo vicina al PCI) e la “Giustino Fortunato” (un tempo vicina al PSI). Un tempo, l’altro secolo, o un secolo fa. Così tanto sembra il tempo che ci separa da quell’aria plumbea, dagli anni di piombo del terrorismo (del capo-colonna delle Br, Peci), dalle “gambizzazioni” e gli omicidi: gli anni ’80, quelli del sindaco Novelli e delle “Estati all’aperto, dei “Punti verdi”, per riconquistare gli spazi perduti. Corso Massimo – considerata la via dei viados e delle nigeriane – è uno dei tanti, troppi punti di degrado, in una città che ancora assume il fascino decadente delle nobiltà e delle aristocrazie reali in esilio (“ci fossero rimasti- secondo qualcuno – si sarebbero evitati ignobili spettacoli televisivi”). Quella Torino che “la sera diventa stella”, come in una vecchia canzone di Venditti. In quegli anni aprivo gli occhi in quella città, e non si allontana mai. Sono tanti i lucani l’hanno amata, continuano ad amarla, specialmente quelli che lì ci hanno vissuto e che non sono più ritornati.

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