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di ROBERTO LOSSO
La calabresità è un vecchio arnese. Perché non suscita più passioni né buoni sentimenti. Al massimo, ormai, è una stucchevole rappresentazione retorica nelle mani rapaci dei vecchi e nuovi baroni della politica e delle lobby. La utilizzano per darsi un tono. Quando appare strumentalmente utile richiamarsi a quella cultura contadina che, nella nostra regione, riempiva di contenuti e valori una vita spesso al limite della sopraffazione e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Anche nella miseria, però, c’era tanta dignità nelle genti di Calabria. Nonostante tutto, infatti, riuscivano a resistere. Ad opporsi ad un sistema di potere feudale che, di fatto, le escludeva dalla distribuzione della ricchezza che esse producevano. Ci riuscivano, quei cafoni e lazzaroni, facendosi popolo, comunità e vicinato. Spesso e volentieri attraverso forme di ribellione che anticipavano quel bisogno di giustizia sociale che rappresenterà, in seguito, l’arma vincente delle rivoluzioni di massa. Ne sanno qualcosa i piemontesi di Casa Savoia che, dopo l’illusoria marcia trionfale del “compagno” Garibaldi, nel Mezzogiorno redento e liberato, mandarono l’esercito per “costruire” l’Italia. Dissero che era necessario per liberarci dai briganti. Invece, fu un massacro. Anzi. Una vera e propria guerra di sterminio. Rileggendo quelle pagine d’impiccagioni sommarie e feroci rappresaglie, ci sembra di rivivere lo stesso film del terrore che ancora oggi viene proiettato in Libia o in tutte le regioni del mondo dove i nostri soldati, per lo più ragazzi del Sud, muoiono nelle sporche guerre del petrolio che i generali chiamano missioni di pace. La storia c’insegna che non è una buona strategia di governo degli uomini e dei popoli pensare di educarli a colpi di cannone. Nelle regioni meridionali dell’Italia post-risorgimentale non ha funzionato. Anzi. Ne ha segnato il declino, perché ha imposto con la violenza delle armi modelli politico-culturali estranei ai processi produttivi e sociali propri del Regno delle Due Sicilie. È vero. L’equilibrio preesistente non era un granché. Era corrotto e decadente. Non è stato, però, lungimirante portarsi via soldi e tecnologie. Che pure c’erano ai tempi di Francischiello. Né, tanto meno, sottrarre all’agricoltura, dall’oggi al domani, gran parte della sua forza lavoro con l’imposizione di una leva obbligatoria lunga sette anni. Eppure, a Torino, capitale dell’Italia unita a metà, sapevano che la repressione militare insieme all’ulteriore impoverimento di chi era già povero avrebbero suscitato sentimenti di sfiducia nei confronti dei piemontesi e dello Stato unitario che agli occhi dei meridionali si presentava nel peggiore dei modi. La Calabria, in quest’annessione senza solidarietà e senza amor patrio, pagò il prezzo più alto. Perché, anche allora, era il Sud del Sud. È incominciata da lì, da quella rivoluzione tradita, il cammino di perversione che ha inaridito l’anima, la sensibilità e la cultura della nostra terra? In fondo, anche nelle successive fasi storiche, dal fascismo al dopoguerra, dalla prima alla seconda repubblica, l’approccio alla questione è sempre stato quello del bastone e della carota. Più carabinieri e più Cassa del Mezzogiorno. A condizione, però, che, al momento giusto, i calabresi fossero ossequiosi, fedeli e riconoscenti. È stato così ogni volta che la Calabria è scesa in piazza. Intervennero i reparti speciali, quando, negli anni ‘50, i contadini occuparono le terre incolte che, per generazioni, avevano concimato con il proprio sudore. Se ne restarono nelle caserme, mentre i “fattori” del barone Mazza uccidevano Giuditta Levato ed il bambino che portava in grembo. Poi, però, Alcide De Gasperi fece la riforma agraria. E venne l’esercito, venti anni dopo, per porre fine alla rivolta popolare di Reggio Calabria. Intervennero gli stati maggiori dell’Italia golpista, con i carri armati e con il “pacchetto Colombo”, perché, nel frattempo, la situazione era sfuggita di mano ai “boia chi molla” e ai servizi segreti degli opposti estremismi. Così, strada facendo, si è persa la Calabria, che ci portavamo dentro. Pezzo dopo pezzo, infatti, ci hanno scippato l’anima. Nel ventre molle di questa moltitudine di persone che non riesce più a farsi popolo, è uno stillicidio d’avvenimenti moralmente indecenti. C’è di tutto. Alcune, tra l’altro, al limite della cialtroneria e dell’accattonaggio. A che serve elencarle? La cronaca ne parla tutti i giorni. Quelle del mare dei veleni, della politica senza ideali e della ‘ndrangheta pigliatutto. Le conosciamo così bene ormai che l’unica cosa che c’indigna è l’impudicizia trasversale che le accompagna e spesso le giustifica. È quest’omertosa contiguità che fa venire il mal di stomaco. Eppure, in nome della calabresità oltraggiata, c’è chi protesta, se la “Rubettino” ripropone un testo di Giorgio Bocca sull’“asprezza” della Calabria. È vero. Questo amabile giornalista partigiano e galantuomo conosce poco la nostra regione. Altrimenti non avrebbe pensato che ha ancora un’anima. Non è così, perché le hanno scippato tutto. Anche la gioiosa capacità di resistere, pensando ad un futuro migliore.

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