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di FLAVIO STASI
La notizia del referendum greco fa crollare le Borse d’Europa. Verrebbe da chiedersi: la “democrazia” dei mercati, delle privatizzazioni e della concorrenza può essere più spudorata di così? Non è la volontà popolare della Grecia a dimostrarsi incompatibile col liberismo, siamo ad un livello di chiarezza ancora superiore: basta semplicemente che esista la possibilità che il popolo si esprima, e crolla giù tutto. Anche i più abili prestigiatori di regime stanno abbandonando ogni tatticismo sputandoci la verità in faccia. Uno dei più autorevoli, il Financial Times, per esempio, commenta la notizia greca seccamente: «Chiedere al popolo di esprimersi sull’accordo del 27 ottobre è come chiedere al tacchino se vuole essere sacrificato». Insomma, gli accordi che i vari governi stanno prendendo a Bruxelles sono delle fregature enormi, e proprio per questo è bene che il popolo non si esprima, che venga guidato silenziosamente verso il forno già caldo insieme a quattro patate. Questo accade lontano, a Bruxelles, ad Atene, a New York, a Roma. In Calabria invece dobbiamo ritenerci fortunati, visto che la crisi ce l’abbiamo dall’Unità d’Italia. Amara ironia, eppure forse è proprio per questo che il popolo calabrese, piuttosto che attaccarsi alle agenzie che rimbalzano il disastro dei mercati, si sta attrezzando per uscire dalla crisi attraverso parole d’ordine ben diverse da quelle dell’Europa finanziaria. Dalle nostre parti i vertici d’emergenza Merkel-Sarkozy o gli “European Financial Stability Facility” hanno davvero poca rilevanza, o quanto meno poco fascino. La crisi, dicono i cinesi, è un’opportunità, e allora la Calabria vuole coglierla al volo, per esempio iniziando a decidere dei propri territori o valorizzando le sue enormi risorse finora affossate dai ricatti economici e dalle incapacità politiche. È stato questo lo spirito con cui migliaia di persone si sono viste a Saline Joniche, dicendo no al carbone insieme ad altre città d’Italia, e sarà lo stesso spirito con cui i calabresi sfileranno il 12 Novembre a Crotone. Finora in Calabria la parola “sviluppo” è stata sempre legata alla parola “ricatto”: del lavoro, innanzitutto. Sviluppare la propria terra dovrebbe essere una prospettiva entusiasmante per chiunque, eppure oggi, se un calabrese non proprio sprovveduto sente la parola sviluppo, rischia di restare sul colpo. Sfido chiunque a pensarla diversamente, dopo aver fatto qualche esempio di come lo “sviluppo” sia stato declinato negli ultimi decenni a sud del Pollino. L’industrializzazione di Crotone per esempio, ad oggi un bel velenificio filtrato coi profitti di Eni e compagnia. La Salerno – Reggio Calabria, ovvero la più colossale opera di sviluppo delle finanze ‘ndranghetiste attualmente, e per lungo tempo, ancora in attività. La liquichimica di Saline Joniche, oggi un bel rottame a sfigurare gli splendidi panorami grecanici, uno dei tanti che ci tocca osservare facendo un giro per le nostre coste. Ed ancora centrali, discariche, grandi opere, tutto in mano a multinazionali, coadiuvate consapevolmente o meno dalla ‘ndrangheta, coadiuvata consapevolmente o meno dalla classe politica. E se c’è una caratteristica di questo modello, governato dalla tecnocrazia delle banche e delle multinazionali, che lega la Calabria direttamente alla Grecia in bancarotta, è l’assoluto annichilimento della democrazia. Oggi più di ieri è evidente come il liberismo, per funzionare, abbia bisogno di farci stare zitti, ha bisogno di decidere sulla testa dei popoli. Ne è la prova la reazione dei mercati alla possibilità di referendum in Grecia. Ne sono la prova 14 anni di commissariamento dei rifiuti in Calabria, ovvero 14 anni di business e di fosse scavate e riempite di monnezza senza che nessuno abbia potuto dire “a”. Ne è la prova quel che dice Fulvio Conti, amministratore delegato di Enel, che al convegno nazionale di Comunione e Liberazione ha parlato di “sviluppo” definendo l’espressione dei territori come “inutili bizantinismi”. Stiamo parlando dei veti che impediscono ad Enel di costruire centrali a carbone o centrali nei parchi nazionali, tanto per intenderci. Ne è la controprova quello che è successo in Islanda, quando in piena crisi del debito un referendum voluto dal basso ha imposto la nazionalizzazione delle banche e la insolvenza del debito nei confronti delle banche estere. C’è un modello di sviluppo, quindi, che ha implicato e continua ad implicare devastazione dei territori e silenzio forzato dei popoli, e c’è anche una parte di una piccola regione di periferia del bel paese, la Calabria, che non ne può più di decisioni dall’alto e di fregature. Questo è il filo rosso che lega il 29 ottobre dei no-carbone alle vicende finanziarie di questi mesi, al referendum greco, al tasso di disoccupazione alle stelle, alla manifestazione del 12 Novembre a Crotone per la fine del commissariamento dei rifiuti e la bonifica dei siti inquinanti. C’è una parte di Calabria che intende uscire dalla crisi partendo dai fondamentali, partendo da se stessa, dal proprio territorio e dalle proprie risorse, che si vuole dare un modello di sviluppo e di partecipazione distante anni luce da quello attuale, che intende darsi una prospettiva reale. La strada è lunga e difficile, ma la Calabria è viva, ed è già in cammino.

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