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di BATTISTA SANGINETO
Aveva ragione il vecchio barbuto di Treviri, Karl Marx: nella società capitalistica è più importante la struttura della sovrastruttura. Quasi due secoli or sono, come ricorda 315703Matteo Cosenza, quello scienziato sociale aveva analizzato e interpretato il mondo nei “Grundrisse”, prima, e nel “Capitale”, poi, sostenendo, fra l’altro, che la struttura, che è anzitutto economico-produttiva, non solo «condiziona la sovrastruttura politica, giuridica, ideologica, ma addirittura la determina». Nel caso del governo Berlusconi è evidente che ha contato di più l’economia della politica, della magistratura, dell’opinione pubblica, del bunga-bunga, dell’opposizione parlamentare e delle piazze. A far uscire di scena Berlusconi sono stati i finanzieri e i banchieri americani ed europei e nessun altro. Se Berlusconi non fosse il personaggio impresentabile che è, dovremmo, tutti noi italiani, essere furibondi, altro che festanti e felici, per le dimissioni cui è stato costretto. Le banche e i banchieri – che hanno portato ad un passo dal baratro prima gli Stati Uniti e che, ora, speculano sulla Grecia, sulla Spagna, sull’Italia e persino sulla Francia – ci hanno imposto un loro uomo alla guida del governo e noi dovremmo festeggiare insieme al “Corriere” e alla “Repubblica”? Come è possibile che la classe dirigente della sinistra possa gioire nell’avere come presidente del Consiglio un “international advisor” della Goldman Sachs, il presidente del Consiglio d’amministrazione della più grande Università privata italiana, nonché uno dei consiglieri d’amministrazione della Coca Cola? Come è possibile che ai dirigenti del Pd e a Vendola (è solo deluso, ma non pregiudizialmente contrario) piaccia essere governati da uno dei più autorevoli rappresentanti di quella finanza che si è rivelata essere perlomeno fallimentare se non truffaldina (i mutui “subprime”), oligopolista (le grandi multinazionali che fatturano più del Pil di una nazione di media grandezza economica) e iperliberista (l’ingresso nel Wto di paesi dittatoriali, ma mercatisti come la Cina)? Piace loro perché il liberismo è l’unica ricetta di cui dispongono, l’unico metodo che hanno per comprendere e affrontare la società tanto che i loro “maîtres à penser” sono i Giavazzi, gli Alesina, gli Ichino, i Boeri, i Salvati che nel corso di questi ultimi anni si sono affannati a dirci che l’unica possibilità di sviluppo, di crescita e, addirittura, di perequazione era quella di rendere possibile le liberalizzazioni, le privatizzazioni, la svendita delle aziende dello Stato, la rimozione delle fastidiose regole dello Statuto dei lavoratori, la flessibilità, la mobilità, la riduzione del costo del lavoro, l’abbattimento dei dazi, l’apertura al mercato globale. Qualcuno ricorderà Prodi, supportato da tutto il gruppo dirigente dell’allora Ulivo, affermare che il mercato globale e quello cinese, in particolare, costituivano una opportunità e non un rischio per le nostre imprese e per i nostri lavoratori. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una crisi economica e sociale di una gravità paragonabile solo a quella del 1929, una sperequazione della ricchezza che, in Occidente, non era così evidente da più di sessanta anni, un diluvio di delocalizzazioni delle imprese in paesi senza regole con il conseguente impoverimento di quei lavoratori che i diritti se li erano conquistati a caro prezzo nei secoli, una élite internazionale di finanzieri che governa il pianeta imponendo le proprie scelte e i propri profitti alla politica, ai governi e ai popoli, ormai, inermi. La cronaca, ma anche la Storia, da qualche tempo si sono incaricate di dimostrarci, a differenza di quel che ci avevano raccontato per anni le classi dirigenti blairiste della sinistra italiana e mondiale, che Marx aveva ragione, che il capitale non ci ha permesso solo benessere e libertà, ma che la sua versione più radicale e autentica, il liberismo, ci ha, invece, riportato, a partire dagli anni ’80 negli Usa e dagli anni ’90 in Europa, a livelli di vita e di benessere inferiori a quelli del keynesismo e della socialdemocrazia che avevano informato di loro, addolcendoli, almeno 60 anni della società capitalistica occidentale. Il nuovo, ma già visto, governo del professor Monti che cosa ha proposto di così straordinario se non le ormai stantie, superate ricette liberiste riassumibili in: privatizzazioni del patrimonio pubblico e dei beni comuni, liberalizzazioni, taglio della spesa pubblica, manomissione delle pensioni e di quel che rimane dei diritti dei lavoratori, reintroduzione dell’Ici sulla prima casa, nessuna patrimoniale e una prevedibile continuità con le politiche privatizzatrici sull’Università (era sul punto di nominare ministro dell’Istruzione pubblica il rettore di una università privata come la Cattolica). È sempre la solita solfa. Si rende sempre più urgente costruire un’opposizione culturale, sociale e politica a questo pensiero unico, a questa direzione univocamente mercatista presa dall’Europa e dall’Italia. Ha ragione Matteo Cosenza quando dice che a sinistra, finora, si sono uditi solo balbettii, ma ci sono segnali in tutto il mondo, anche in Italia, che ci inducono a sperare che un’alternativa di sistema possa essere elaborata e trasformata in proposta politica. I trattati, da quello di Maastricht al Wto, possono essere modificati, non sono immodificabili e ineluttabili, le regole possono esser cambiate dai popoli e dai loro governi, la politica, e cioè l’espressione più alta dell’umano tentativo di convivenza, può e deve riprendersi le proprie, consustanziali prerogative: la rappresentanza e il governo della vita associata degli esseri umani.

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