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di ANTONINO MAZZA LABOCCETTA*
Il lavoro è diventato ormai una vera emergenza sociale, e costituisce una (vecchia e) nuova frontiera su cui sono chiamate a misurarsi soprattutto le forze riformiste. In un contesto in cui, come si legge nel rapporto della Banca d’Italia dedicato a «La ricchezza delle famiglie italiane 2009», poco meno del 50% della ricchezza è concentrato nelle mani del 10% delle famiglie, ancor più allarmanti si fanno i dati sulla disoccupazione, sulla cassa integrazione, sulla sempre più diffusa precarietà del lavoro, che, insieme al mancato sviluppo e/o all’obsolescenza del capitale umano, alla non autosufficienza, all’esclusione sociale, vengono definiti i «nuovi rischi». Il rapporto ci restituisce l’immagine di una società divisa, segnata da profonde disuguaglianze. Come ha scritto Rodotà in occasione del recente Festival del diritto di Piacenza, la «rivoluzione dell’uguaglianza» è il tratto caratteristico della modernità, che, sull’onda delle dichiarazioni settecentesche dei diritti, impone alla storia un’altra società e un altro diritto, fondati sulla libertà e sull’eguaglianza di tutti gli uomini. Libertà ed eguaglianza che l’art. 3 della nostra Carta fondamentale ha voluto ridurre ad endiadi per neutralizzare gli effetti dell’assolutizzazione e dell’una e dell’altra. E tuttavia, se oggi la società è divisa tra poche grandi famiglie che hanno in mano grandi capitali, da una parte, e una larga maggioranza di persone che dura fatica ad arrivare alla fine del mese, dall’altra (senza considerare poi la tendenza all’aumento del numero delle famiglie con ricchezza netta negativa), è evidente che l’equilibrio tra la cosiddetta. eguaglianza delle opportunità e la cosiddetta eguaglianza dei risultati pende negativamente sul secondo piatto della bilancia. Occorrono, pertanto, adeguate politiche redistributive per evitare che, come scrive ancora Rodotà, venga consegnata al cittadino “eguale” «una chiave che apre solo una stanza vuota». Occorrono inoltre politiche appropriate, dirette non solo al necessario rilancio dell’economia e delle attività produttive, ma anche al recupero della dimensione qualitativa del lavoro, schiacciato dalle esigenze della globalizzazione al punto che è la stessa dignità della persona ad essere seriamente minacciata. Quella di realizzare, infatti, maggiore quantità di lavoro con minore tutela è una visione del processo produttivo che, sospinta da pur innegabili e legittime esigenze di competitività, si sta per larghi tratti imponendo, rischiando di depauperare il lavoro dell’essenziale significato acquisito nel corso di un lungo cammino di emancipazione. Il capitalismo, che ha segnato la civiltà occidentale, ha storicamente trovato un non facile equilibrio con le forze democratiche; un equilibrio nel quale l’economia di mercato ha acquistato per molti versi una dimensione sociale e il lavoro si è arricchito di significato, diventando, da merce, strumento di riconoscimento sociale della persona umana, oltre che fonte di reddito. La globalizzazione ha, per così dire, rimescolato le carte, rovesciando quell’equilibrio. La libertà di movimento dei capitali, delle merci, dei servizi, dello stesso lavoro ha (ri)creato le condizioni di una concorrenza selvaggia, in cui riuscire a competere equivale a sopravvivere. Per quanto specificamente attiene al mondo del lavoro, la concorrenza arriva ad investire addirittura il sistema delle relazioni industriali nel suo complesso, in altri termini gli stessi ordinamenti giuridici in sé considerati, spingendosi quindi ben oltre le singole clausole sui singoli diritti. Di qui la spinta che induce le imprese a delocalizzare in contesti giuridici in cui il costo del lavoro è più basso, il sistema delle relazioni industriali meno rigido, la tutela del lavoratore più debole. In altri termini, l’esigenza di competitività si scarica sulla (qualità del) lavoro, mettendo i lavoratori nella condizione di dover accettare maggiore lavoro a fronte di minore tutela. Quello della rinuncia a molti diritti storicamente acquisiti rischia di diventare un processo purtroppo irreversibile, se il sistema non punta sull’innovazione e sulla ricerca. Solo l’investimento nell’innovazione e nella ricerca, recuperando margini di produttività, può porre un argine alla lenta, progressiva erosione dei diritti sociali. In Italia, l’esigenza delle imprese di sciogliersi dai «laccioli» dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, costellati di una serie di «costose» tutele, ha dettato al legislatore norme dirette ad introdurre un grado maggiore di flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro. Tale esigenza di flessibilità è coerente con il nuovo modo di concepire il processo produttivo che, lasciatasi ormai da tempo alle spalle la famosa catena di montaggio dell’epoca fordista, meravigliosamente raccontata da Chaplin in Tempi moderni, è improntato alla filosofia del just in time. Si tratta di un modo di concepire il processo produttivo che, invertendo radicalmente l’organizzazione del fordismo secondo cui occorre prima produrre, poi stoccare, infine vendere, propugna e pratica l’esatto contrario: prima vendere e poi (in base ai bisogni più o meno stimolati del mercato) produrre. La filosofia del just in time richiede, di per sé, flessibilità nella gestione del lavoro, nel senso che l’impresa è chiamata ad organizzare la gestione delle forze produttive in funzione di ciò che il mercato, in un dato momento, domanda. Così concepito, il processo produttivo richiede, da parte del lavoratore, gradi sempre più elevati (non solo di) di flessibilità, (ma anche di) competenza, aggiornamento, autonomia nella conduzione dell’ambito di lavoro. Per altro verso, la flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro, propria del just in time, induce necessariamente precarietà del posto (o ambito) di lavoro, se non addirittura del rapporto stesso di lavoro, il che impone di continuo al lavoratore di ripensarsi professionalmente per potersi ricollocare nel mercato (èla strategia della cosiddetta flexicurity, che vuol dire meno sicurezza per il posto di lavoro, più sicurezza di trovarne un altro). Il nostro Paese fornisce un buon esempio di come i fattori di flessibilità introdotti nel mercato del lavoro attraverso massicce dosi di deregolazione degli ingressi non siano adeguatamente bilanciati da un correlativo ampliamento delle forme di protezione sociale e delle opportunità di re-impiego, mancando pertanto quell’equilibrio tra flessibilità e sicurezza che costituisce la sostanza della flexicurity. Questa mancanza di equilibrio determina precarietà che, specie per i livelli meno elevati della forza lavoro, finisce per ingenerare incertezza sul futuro, conseguente impossibilità di programmare la propria vita, mancanza di riconoscimento sociale, perdita di radicamento territoriale (quando si è costretti a inseguire il lavoro di qua e di là). Una serie di fattori, insomma, che impoveriscono il lavoro, inteso come fonte di riconoscimento sociale, e, con esso, un’intera generazione che, minata nella sua psicologia individuale e collettiva, si muove come sospesa nella fitta nebulosa della perdita di senso. A catena, è la società nel suo complesso che finisce per impoverirsi. I processi di competizione globale mettono a dura prova i nostri sistemi di diritti e di welfare, imponendoci di ripensare i modelli di protezione sociale senza arroccamenti conservatori, ma senza neppure abbandoni fideistici alle fanatiche derive «mercatiste». Dal Novecento abbiamo ereditato diritti e tutele che in parte dobbiamo conservare o trasformare e in parte abbandonare per costruirne degli altri, più adeguati alle attuali sfide: sfide globali alle quali i singoli ordinamenti nazionali, in assenza di istanze internazionali in grado di regolare la competizione, sono incapaci di porre argini. Per evitare la concorrenza al ribasso nelle condizioni lavorative (dumping sociale), occorrono, in altri termini, standard di tutela internazionali relativi al contenuto minimo di protezione dei lavoratori, al di sotto del quale il lavoro diventa sfruttamento illegale. In questo senso si era mossa la direttiva europea 71/96 riguardo all’apertura del mercato europeo dei servizi, cercando di individuare, tra i modelli acquisiti nei diversi paesi, le forme di tutela del lavoro e gli istituti di welfare che potevano considerarsi più comuni e basilari. Sennonché è prevalsa un’interpretazione restrittiva della direttiva che, tradendo la sua ratio storica, intesa a fissare gli standard minimi di tutela al di sotto dei quali gli ordinamenti nazionali non avrebbero potuto scendere, li ha considerati invece come limiti massimi di tutela, rispetto ai quali né le istituzioni nazionali né gli organismi di autonomia collettiva possono prevedere condizioni di lavoro più favorevoli. Insomma, il classico inganno una volta fatta la legge.

*ricercatore di Diritto amministrativo
docente di Diritto urbanistico Università Mediterranea

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