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di NUNZIO RAIMONDI
Per un avvocato la lotta nel processo è una condizione naturale; sia che difenda le ragioni della vittima del reato sia che difenda l’incolpato l’avvocato combatte con gli strumenti della legge per la compiuta attuazione di un processo giusto. In questa azione il compito del difensore è tanto più professionale ed efficace quanto più essa è radicata nella legge la quale costituisce, con le sue molteplici potenzialità, la principale fonte di forza, il potere in capo all’incolpato che, per questa ragione, quando viene formalmente accusato di un fatto di reato, assume, secondo la parola della legge, la qualità di imputato. Questo per chiarire che non esiste nel nostro sistema giuridico solo la qualità di pubblico ufficiale ma, nel nostro Ordinamento penale, esiste anche la qualità di imputato. A fronte quindi di una qualità derivata dall’esercizio del potere esiste anche una qualità derivata dall’essere accusato, una sorta di bilanciamento delle posizioni, fuori e dentro il processo, fra autorità e libertà. Peraltro il nostro sistema legale è calibrato (seppure non in modo ancora pienamente compiuto) sulle garanzie difensive, un contraltare all’azione potente del pubblico ministero, un’azione obbligatoria e pubblica, quindi svolta nell’interesse di tutti, nell’ambito della giurisdizione. Anche l’azione del parlamentare è assistita da garanzie proprio in quanto pubblica e, del pari, sia pure con possibilità ad oggi assai diverse, l’azione di governo e, conseguentemente, di coloro che lo compongono. Nel bilanciamento fra le funzioni vi è un equilibrio (se si vuole da disciplinare ancora in modo più efficace) parametrato sul costume istituzionale e sulle ipotesi costituzionali articolate all’atto della formazione delle leggi in materia. Ora non v’e dubbio che il costume istituzionale sia ai nostri giorni radicalmente cambiato anche rispetto al recente e meno recente passato ma, se si vuole andare al cuore del problema, si deve prendere atto che il nostro Ordinamento presenta alcune evidenti lacune e distorsioni: In primo luogo esso non prevede antidoti rispetto alla occupazione del potere legislativo attraverso patti elettorali che limitino la libertà di voto dei parlamentari eletti. In secondo luogo il nostro sistema garantisce al potente le stesse garanzie del povero Cristo senza, tuttavia, tenere nel debito conto che, se l’autorità si potenzia con i diritti di libertà, essa può oggettivamente diventare più potente della giurisdizione. Se, infatti, mi impadronisco del potere legislativo (nel senso che lo domino al pari di un generale che comanda le sue truppe) posso far leggi per depenalizzare i reati di cui sono accusato, posso ridurre i termini di prescrizione, posso riformare le norme che regolano i processi penali in corso e quant’altro, insomma posso limitare l’azione della giurisdizione e posso perfino dire che faccio tutto questo non per me (salvo poi a dover spiegare perché mi ossessiona solo lo scudo per le alte cariche…per il quale tengo impegnato il Parlamento da troppo tempo) ma nell’interesse di tutti trovando perfino e un nutrito gruppo di distratti ma plaudenti sostenitori. Io e il mio più o meno ampio (secondo i momenti…) manipolo di parlamentari, posso materialmente impedire alla magistratura di fare il suo corso su di me o su altri, purché protetti dal gruppo di appartenenza. Questa strumentalizzazione dei pubblici poteri per la quale, in piena legalità, posso avvalermi dei poteri conferiti a me ed ai miei dalla legge – come ad esempio utilizzare l’istituto del conflitto di attribuzione, magari perfino irritualmente, od utilizzare una pronunzia della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati per pronunziare, del tutto irritualmente, sulla materia della competenza, funzionale o territoriale della Procura procedente – per rimandare sine die il processo nei miei confronti o, addirittura, per sostituirmi ai giudici – ordinari o costituzionali – chiamati, per legge, a pronunziare sulla competenza funzionale (i primi ed i secondi, questi ultimi a seguito di conflitto di attribuzioni) e territoriale (solo i primi), è il vero problema di cui dovrebbe discutersi. Si pone quindi ad oggi non tanto il problema della presenza o meno delle leggi (e quindi di scontro fra poteri a causa della legge) ma delle modalità di applicazione della legge, del caso cioè di una strumentalizzazione della legge per chiare finalità di ostacolo al corso, se corretto o meno possono deciderlo solo i giudici nei vari gradi di giudizio, della giustizia. Negli Stati Uniti, ad esempio, questo comportamento è disciplinato sotto forma di reato (quindi è sanzionato e non a caso molto severamente), il reato appunto di ostacolo al corso della giustizia, per la qualcosa il potente come il quivis de populo non si sognerebbe mai di non presentarsi davanti ai suoi giudici, magari anche soltanto per eccepirne l’incompetenza funzionale o territoriale, ed attendere, fiduciosamente e dai suoi giudici, la decisione sulla sua eccezione. Insomma, si pone qui senz’altro la necessità di prevedere, nella legge, un antidoto potente rispetto alla sua strumentalizzazione per un fine diverso da quello propriamente voluto dal legislatore, ma, nella situazione data (l’attuale legge elettorale ha infine prodotto molti più danni rispetto a quanti si poteva immaginare da parte perfino di chi, molto superficialmente, ha fatto in modo che passasse!), solo la giurisdizione può salvare il Paese dal baratro. Il contrasto allo stato presente deve quindi partire dalla giurisprudenza, la quale, col massimo rigore (in tal senso come non dare atto del lavoro istituzionalmente pregevole della Consulta), deve poter garantire, nella funzione propria di applicazione coerente e costituzionalmente orientata della legge a cui è soltanto soggetta, una interpretazione corretta delle norme denunziando, con la massima sollecitudine, tutte le sue distorsioni, implicite ed esplicite. In tal senso a chiunque si voglia sottrarre alla giurisdizione, tanto peggio se questo avviene attraverso la strumentalizzazione di istituti previsti dalla legge ma applicati in modo chiaramente distorsivo e perfino contro le finalità proprie della legge stessa (cosiddetta ratio legis), deve essere impedito di farlo. Del pari chi abusa dei poteri conferiti dalla legge all’Autorità per conseguire risultati diversi dal corretto corso della giustizia, sia monitorato e, se fatti gravi dovessero emergere, sia censurato nelle appropriate sedi. E l’avvocato, che della legge – e non della sua strumentalizzazione n’è del suo aggiramento – ha tradizionalmente fatto il suo vessillo (quanto lo rende simile, non solo nella veste, ai giudici) a difesa dei deboli (di fronte allo strapotere dell’Autorità), dovrebbe sentirsi a disagio nel vederla piegata a prospettive non di impunità ma di evasione dalla giurisdizione. E la gente comune, sopratutto coloro che nei processi subisce ed ha subito (troppe volte ingiustamente) le prevaricazioni dell’Autorità, non dovrebbe ora tacere preconizzando, non senza soddisfazione interiore, la fine del cosiddetto “potere dei giudici”, perché dovrebbe accorgersi che da un Paese senza regole e senza giudici dobbiamo tutti guardarci, come anche la storia recente ci insegna, almeno quanto bisogna guardarsi dalle vessazioni dell’Autorità, senza distinzioni di sorta. Perché non è detto che chi comanda abusando delle regole sia migliore di chi giudica abusando delle regole. Entrambi, fortunatamente pochi ma con troppe tifoserie al seguito, non valgono un fico secco ma possono produrre al Paese danni irreparabili nel giustizialismo spinto come nell’aggiramento e distorsione delle prerogative dell’Autorità politica di fronte alla giurisdizione. E’ dunque la legge che può e deve prevalere sulle volontà dei singoli e tutti dovremmo sollecitarne una applicazione, in tutte le sedi, adeguata. Ma se, viceversa, ci mettiamo a fare il tifo, da una parte o dall’altra, per chi la legge vuole baipassare arriveremo tutti ad una tragica resa dei conti dai contorni tutt’altro che prevedibili. Fermiamoci, dunque, sull’orlo del precipizio. Ed il presidente della Repubblica, quale presidente del Csm, intervenga in tale situazione di emergenza istituzionale per garantire, non solo a parole, l’effettivo equilibrio dei poteri ma soprattutto per assicurare in questo Paese, una volta per tutte, la corretta applicazione della legge.

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