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di PIETRO MANCINI
Tutta la verità sul modo in cui venne istruito, dai magistrati della Dda di Reggio Calabria, Boemi e Verzera, il kafkiano procedimento contro l’ex segretario nazionale del Psi verrà, dettagliatamente, raccontato, ai calabresi e agli italiani, in un volume che la casa editrice Rubbettino nei prossimi giorni invierà nelle librerie con questo titolo, molto significativo :”L’agguato a Giacomo Mancini”. Il libro, che è stato scritto da uno dei legali del leader socialista, Enzo Paolini, e dal giornalista Francesco Kostner, ricostruisce, minuziosamente, la drammatica vicenda giudiziaria, politica e personale, che coinvolse l’ex “ministro del fare”, e non delle chiacchiere, rilasciate “ad abundantiam” dagli attuali politici, di non eccelsa qualità. Giacomo Mancini venne assolto, al contrario di quanto, di recente, ha sostenuto Boemi, attuale direttore di un dispendioso carrozzone regionale, dopo un lungo e doloroso calvario, nel 1999, dal giovane dottor Vincenzo Calderazzo, giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Catanzaro. Quello stimato magistrato, purtroppo scomparso, cestinò, senza tentennamenti, le frottole, a volte persino esilaranti, degli spietati killer della ’ndrangheta, presunti “pentiti”, elencate, minuziosamente, nel libro della Rubbettino. Calderazzo sentenziò che “il fatto non sussiste”. E, nelle motivazioni, diffuse subito dopo il dibattimento, spiegò : “Non esiste prova alcuna….Gli enunciati accusatori del pubblico ministero si rivelano generici e indefiniti”. È una sentenza che il signor Boemi conosce benissimo, in quanto l’onorevole Mancini si preoccupò di inviarne le copie a lui, al suo collega, signor Verzera e alle magistrate, che lo avevano condannato, nel 1996, bevendo le fandonie dei “pentiti” come oro colato. E tenendosi un processo, che non competeva a loro, come stabilì’ il tribunale di Reggio Calabria, annullando quel dibattimento e inviando gli atti a Catanzaro. Purtroppo, solo 3 anni dopo quell’assoluzione, riferita e commentata da tutta la stampa, nazionale e locale, l’allora sindaco di Cosenza si spense, in conseguenza delle dolorose sofferenze, fisiche e psicologiche, che gli provocarono le accuse, inventate di sana pianta, in taluni casi, farsesche, di “concorso esterno” con la ’ndrangheta, che il parlamentare socialista, per 10 legislature, figlio del senatore Pietro Mancini, fondatore del Psi in Calabria, aveva, sempre, combattuto, sin dalla sua prima apparizione alla Camera dei deputati, nel lontano 1948. Con disprezzo e arroganza, durante le udienze di Palmi, Boemi si rivolgeva all’ex ministro, chiamandolo “quell’uomo lì'”. Sono più che certo che un giovane, corretto e in buona fede uditore giudiziario, alla prima esperienza, sarebbe riuscito a smascherare le falsità di quei testi bugiardoni, rispedendoli nelle prigioni, da cui provenivano. Mi fa piacere preannunciare ai lettori del “Quotidiano della Calabria” una delle “chicche” del libro di Paolini e Kostner. Come e da chi vennero reclutati i “pentiti” anti-Mancini, nelle carceri italiane? Dall’allora responsabile della Dia di Reggio Calabria, il colonnello Angiolo Pellegrini, al quale il sostituto procuratore della Dda, Boemi, aveva dato l’incarico, redigendo un’apposita circolare, riprodotta nel volume, contenente l’incarico di “indagare su quell’uomo li'”, ancora oggi stimato e rimpianto da amici e avversari, in Calabria e fuori. Il dirigente socialista venne, vanamente, difeso, davanti al tribunale di Palmi, da Cossiga, Macaluso, Ruffolo, Cabras, Alinovi e altri illustri esponenti di tutti i partiti. Disse Giacomo Mancini al giornalista Renato Farina, allora vice-direttore de “Il Giornale”, che seguì tutte le udienze del processo di Palmi: «Mi hanno incriminato, senza sapere nulla di me, delle mie battaglie, nel Governo e in Parlamento, né della storia della Calabria, né di quella della ’ndrangheta. Sanno di me quello che gli ha detto un certo Scriva che, in aeroporto, mi avrebbe gridato, mentre era circondato dai carabinieri, di stare attento a “quei cornuti della famiglia Pesce”. Sto molto solo. Non mi importa niente dell’esito giudiziario. Se sono perbene, non me lo devono dire dei giudici. Ho fatto tanti errori. Ma, mi creda, merito di trovare un giudice, che mi dica : onorevole Mancini, lei è innocente, lei è un galantuomo!» E il più amato sindaco di Cosenza quel giudice lo trovò, a Catanzaro, il 19 novembre del 1999. Il leader storico del socialismo calabrese ed ex segretario nazionale del Psi così commentò quella sentenza assolutoria: «Io non ho mai contestato i giudici. Li ho criticati e ritengo di averne il diritto. Come feci, quando, a Reggio Calabria, ci fu l’annullamento del processo di Palmi e dissi: finalmente, il volto sereno di un giudice – e purtroppo avevo davanti a me la figura, non tranquillizzante, bieca, del Boemi – adesso dico la stessa cosa: il volto sereno del dottor Calderazzo è anche il mio volto. Ed è il volto, che vorremmo avesse la giustizia, nel Sud e in Calabria». Sono parole, ancora attuali, che, rileggendole 12 anni dopo, mi commuovono, intensamente, avendo vissuto accanto a mio padre, quella drammatica vicenda, e che intendo far mie. Insieme alla soddisfazione che, oggi, la direzione dell’attività di necessario, incisivo contrasto della ’ndrangheta e delle collusioni della politica con i poteri criminali, nella città e nella provincia di Reggio Calabria, sia affidata, finalmente, a magistrati seri, competenti, corretti con tutti, compresi gli indagati, come l’attuale capo della Procura, dottor Giuseppe Pignatone, non a caso una delle toghe siciliane più stimate dai compianti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

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