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Identità, storia, architettura. Un cinema-teatro può essere questo, anzi, non può non esserlo. Non è un edificio, non solo. E’ un’opera che pulsa di vita, quella delle persone che lo utilizzano, che se ne appropriano, che si impadroniscono dei suoi spazi. Un palcoscenico può parlare attraverso gli artisti che lo hanno calcato, che hanno lasciato qualcosa di loro al pubblico che ha assistito agli spettacoli. E’ un’opera viva perché genera ricordi, genera storia, identità, cultura.
Tutti sono d’accordo: il Duni va salvato. Ma in questa commedia la sensazione è che si stia recitando a soggetto.
I proprietari sono divisi: alcuni vorrebbero vendere, altri continuare a gestire la struttura, in ogni caso con l’inevitabile supporto finanziario degli enti pubblici. Il Comune vorrebbe intervenire ma non sa come: non può acquistarlo perché le leggi glielo vietano e quand’anche fosse possibile sarebbe difficile quantificare il reale valore dell’immobile. Così il racconto sembra avvitarsi su se stesso, privo di uno sbocco. Servirebbe un colpo di scena, uno di quelli che rende interessante una trama ma al momento non ce n’è traccia. Tutto sembra incanalato verso un tunnel senza uscita perché c’è diffidenza, non c’è la convinzione di voler investire in una struttura che si ritiene, forse, senza un futuro. Bisognerebbe avere il coraggio di parlar chiaro, di scoprire le carte, di dire senza paura cosa si ha in mente. E questo vale per i proprietari così come per il Comune e la Regione.
Quello che è certo e che occorrerebbe non dimenticare è che il Duni è un simbolo, lo è sempre stato, sin da quando se ne stavano edificando le fondamenta. Un’architettura moderna a due passi dai Sassi, il segno di una città che vuole tornare a vivere, che vuole buttarsi alle spalle l’esperienza delle case-grotta. Progettato con addirittura 1200 posti a sedere, perché il teatro, il cinema, sono arti popolari, nati e pensati per il popolo. Veicolano messaggi più o meno complicati ma servono a intrattenere il pubblico, elevandolo, istruendolo.
Nel Dopoguerra Matera aveva bisogno di rinascere e questa voglia fortissima è stata compresa da un gruppo di imprenditori illuminati. Conti, Latronico, Annunziata, Morelli, Andrisani conoscevano la città, nel suo profondo. Andrisani ne conosceva la terra, la respirava, l’aveva resa produttiva coltivandoci il grano che veniva trasformato in farina nel suo mulino, e poi in pasta. Questi uomini, mecenati, sì mecenati, volevano restituire a Matera un luogo di cui essere orgogliosa. E si erano affidati ad Ettore Stella, ad un architetto materano, per farlo. Non perché non avrebbero potuto permettersi un professionista famoso che veniva da Roma o da New York. Hanno dato spazio al talento, al genio, di un loro figlio dal futuro luminoso interrotto da una sorte infausta. Un ragazzo, che aveva vissuto i Sassi, che conosceva i luoghi. Stella voleva proiettare Matera nel futuro, voleva sperimentare, stupire, far comprendere loro che bisognava aver fiducia. Ne è nato un capolavoro.
Ecco perché il Duni non è solo un cineteatro bellissimo. Il Duni racconta Matera, è la sua storia, come lo erano i mulini e i pastifici. I materani non sono mai stati generosi con la loro storia. Oggi la portano sul petto sotto forma di spilletta, ma quando si è trattato concretamente di difenderla, di rivendicarla, di ricordarla, in pochi casi l’hanno fatto. I mulini sono spariti, i pastifici anche, così come i laterifici. Ci sono case al loro posto. Matera non ha difeso la sua economia, il suo lavoro, la sua società. Oggi tocca al Duni. E’ privato, si dice, come dire: fatti loro. Già, ma non è solo un teatro. Non sono solo fatti loro. Se Andrisani avesse pensato ai fatti suoi quell’opera non ci sarebbe stata. Ecco il legame, che non è solo familiare, tra il Duni e la città. Quel teatro non va salvato, va fatto rivivere. Ne va ripensato il ruolo, va recuperato il suo valore storico-sociale, prima ancora di quello culturale.
Se la città non capisce questo, se chi la guida non capisce questo, se i proprietari del Duni non capiscono questo, allora la nottata non passerà. Resterà il rudere di un monumento, come lo erano i pastifici, pronti ad essere abbattuti e ricostruiti con altre funzioni. Se il futuro è questo lo si dica subito, inutile continuare a inscenare giochi delle parti. In un teatro suonerebbe come una colossale beffa.

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