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di BATTISTA SANGINETO
Aristotele dice che Italo, re degli Enotri, nel XIV secolo a.C. trasformò i suoi sudditi da pastori nomadi in agricoltori, impose loro nuove leggi dando vita, in tal modo, alla prima, embrionale forma di organizzazione statuale. 3400 anni dopo Cordero di Montezemolo trasforma la porzione più economicamente appetibile del trasporto pubblico in trasporto privato e chiama il suo treno come il mitico fondatore del primo assetto etnico e politico della Calabria, escludendo dal percorso proprio le estreme regioni della penisola. Italo si è fermato, più o meno, ad Eboli. Non c’è che dire: è la modernità, è il mercato! Così come rappresenta certamente la modernità la reintroduzione -mascherata dai soliti meschini anglicismi (smart, prima relax e club)- delle tre classi che erano state abolite nel 1956, grazie al miglioramento del tenore di vita degli italiani. Per la verità esiste già da tempo una terza classe costituita dai treni bestiame dei pendolari, mentre è passato solo qualche giorno da quando sono stati aboliti i treni a lunga percorrenza, quelli che, da ragazzo, prendevo insieme a molti miei coetanei per andare a studiare nelle Università del centro-nord. Treni perlopiù lunghissimi, maleodoranti, lenti, ma pieni di speranze in un mondo e in una vita migliori. Carrozze cariche di una umanità meridionale dolente che cercava di riscattarsi da una condizione di povertà e subalternità andando a lavorare nelle fabbriche di chi, ora, toglie loro quei treni con la motivazione che è più conveniente l’aereo. Ma per chi? Per gli emigranti, per la povera gente o per le società aeree e ferroviarie private? Credo, peraltro, che non vi sia una metafora che descriva meglio dell’introduzione dei treni privati la composizione socio-economica dell’Italia, e non solo, di questo tempo che ci tocca vivere. Dopo decenni di ceto medio pervasivo, di indistinguibilità delle classi socio-economiche torna ad essere evidente che la società è divisa in classi, tornano ad esistere, a materializzarsi i poveri, gli agiati e i ricchi. I consumi non sono, non possono più esserlo, simili, ma hanno già da tempo ripreso impetuosamente ad essere molto diversi fra le classi, con buona pace dei tardi epigoni della terza via blairista, i dirigenti del PD, che hanno trovato nel consumatore, nella difesa del consumatore l’unica ragione della loro azione politica. Stanno inseguendo “lo sciame inquieto dei consumatori” (Bauman) senza capire che lo sciame non è un gruppo, una porzione della società con i suoi “leaders” ed i suoi valori, e meno che mai una classe, ma solo un insieme di individui senza solidarietà e senza cooperazione che hanno, o avevano, solo un’occasionale contiguità nel consumo di massa. Ora che la sempre più accentuata divaricazione dei redditi rende sempre meno frequente quella prossimità, è del tutto evidente che non si può più ideologicamente cercare di ricorrere solo a diminuzioni dei prezzi delle merci, che il più delle volte si traducono solo in un abbassamento del livello delle merci medesime e dei servizi, ma si deve e si può, invece, pretendere l’aumento dei salari e la diminuzione -per mezzo di una fiscalità fortemente progressiva, l’introduzione della keynesiana “tobin tax” sulle transazioni finanziarie e la reintroduzione dei dazi doganali- degli spaventevoli profitti dei grandi capitali e delle multinazionali. Per questi motivi, riassunti e semplificati, ritengo strabiliante, seppure intimamente coerente, la reazione del segretario, ex comunista, del maggior partito della sinistra italiana alla notizia del rallentamento subito dalle liberalizzazioni. Il primo vero governo di destra che l’Italia abbia avuto- dopo quello di Minghetti che impose la tassa sul macinato- taglia sulle pensioni, tassa la prima casa, la benzina, le sigarette, aumenta indiscriminatamente l’Irpef e l’Iva, finanzia generosamente le imprese e favorisce le banche senza introdurre alcuna tassazione per i ricchi e Bersani, per cosa alza la voce e si dichiara stupefatto? Solo per le mancate liberalizzazioni. Anche se io sono un archeologo e non un economista (come quelli che, in questi ultimi anni, hanno previsto tutto!), leggendo i dati forniti dall’Ocse, mi appare evidente che in oltre un quindicennio di politiche liberiste, la capacità di crescita della produzione industriale italiana, dal 1991 al 1999, è diminuita di due terzi. A smentita delle tesi liberiste, l’espansione economica è stata in ripresa dall’inizio del 2002 alla fine del 2006 (Berlusconi II e III), quando le politiche di spesa, soprattutto per infrastrutture, sono state più robuste, mentre è precipitata nel 2007 (Prodi II), quando la politica del rigorismo finanziario e delle liberalizzazioni ha ripreso piede. Mi auguro che anche per voi, cari amici e compagni del Pd, sia diventato ormai palese che questo partito, la cui radice mi è così cara, non esprima più una sola idea o proposta davvero perequativa, redistributiva della ricchezza, ma che insegua solo il mercato, le borse, la finanza internazionale che nulla hanno a che vedere con i principi fondanti della sinistra. Non credete che sia arrivato il momento di costruire un vero, grande partito radicalmente socialdemocratico che abbia l’ambizione gramsciana di essere maggioritario nel nostro Paese?

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