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di PIETRO MANCINI
La strage del rapido 904 Napoli-Milano del 23 dicembre 1984 si inserì in un “preciso disegno strategico” dello spietato boss di Cosa Nostra, Totò Riina, che aveva deciso di «far apparire l’attentato come un fatto “politico” allo scopo di sviare l’attenzione degli apparati dello Stato dal vero problema, ossia la ricerca e l’identificazione dei mandanti della strage stessa». E’ quanto sostiene la Dda di Napoli, che ha notificato un’ordinanza di custodia cautelare in carcere a Riina. Quanto al movente specifico, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, emerge che il sanguinoso attentato si inserì nella “strategia stragista” dell’organizzazione mafiosa siciliana, ideata e perseguita dall’ala corleonese, facente capo a Riina. Lo scopo era condizionare gli esiti del maxiprocesso, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, esercitando “ogni possibile forma di pressione – si legge in una nota del coordinatore della Dda di Napoli, Alessandro Pennasilico – sugli apparati dello Stato, anche attraverso atti di violenza indiscriminata nei confronti dell’intera collettività, sullo stesso modello e secondo l’analogo esempio delle organizzazione di stampo più strettamente politico-eversive”. Queste “pressioni”, nelle intenzioni di Riina e secondo quanto dichiarato dai mafiosi “pentiti”, erano destinate ai veri o presunti referenti politici di “zu Totò”, tra cui l’europarlamentare andreottiano Salvo Lima, poi assassinato nel 1992, come sostanziale forma di ricatto per condizionare, a livello giudiziario, l’andamento del temuto maxiprocesso». Dall’epoca del ministro siciliano Scelba fino a Tangentopoli, la Dc non ha mai mollato la poltronissima del Viminale e, attraverso alti ufficiali, legati ai capi delle correnti della “Balena bianca”, ha controllato i servizi di sicurezza. Dai misteriosi delitti dei banditi Giuliano e Pisciotta in poi, un’ombra inquietante ha pesato sui rapporti, mai chiariti, tra le forze dello Stato democratico e quelle che fanno capo ai grandi centri eversivi e mafiosi. Da capo del governo, Aldo Moro protesse l’ex Capo del Sid, Vito Miceli, pure dopo il suo arresto, e pose gli omissis sui tentativi di golpe e sulle stragi. E, dopo che ha parlato Claudio Martelli, nel 1992 Guardasigilli, perchè tace Giulio Andreotti, all’epoca premier? Ma è pesante più di un macigno, soprattutto, il fitto mistero sulle ragioni, vere, del “disco verde”, dato da Giovanni Conso, ministro “tecnico” della Giustizia dell’esecutivo di Ciampi, alla cessazione di centinaia di “articoli 41 bis” (carcere duro) a boss mafiosi di primo piano. Perché lo stesso Conso, ma anche Ciampi e l’allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, oggi molto anziani ma ancora lucidi, non spiegano le reali motivazioni, che indussero lo Stato, fermo e gelido nel 1978 con gli spietati sequestratori di Aldo Moro e degli agenti della scorta del presidente della Dc, a trattare, invece, nel 1993, con i boss stragisti? I giornali sono pieni di pagine con le intercettazioni telefoniche e i verbali degli interrogatori delle avvenenti ragazze, che frequentavano il villone di Arcore del premier, ma neppure una riga è trapelata dalle deposizioni, rese da Ciampi e Scalfaro, e subito secretate, davanti ai magistrati, su questioni vitali per una democrazia, che la stampa americana e quella britannica, certo, non avrebbe quasi ignorato, come sta avvenendo in Italia. E, prima del suo recente arresto, il circuito mediatico aveva dato un eccessivo credito a Massimo Ciancimino, senza che nessuno dei tanti “mafiologi” abbia chiesto: perché il figlio di don Vito ha ritrovato la memoria ben 17 anni dopo le stragi mafiose e 7 dopo la morte dell’ex sindaco di Palermo? E perché avrebbero dovuto essere più credibili le esternazioni di Massimo rispetto a quelle degli ex ufficiali dei Ros, valorosi carabinieri che catturarono Totò Riina e altri pericolosi latitanti, ma che oggi vengono processati a Palermo? Ma il punto centrale, e il più grave di tutti, è quello paventato da alcuni osservatori, dai familiari delle vittime e da semplici cittadini: sinora sulle stragi e sui tanti misteri del Bel Paese la maggior parte delle inchieste sono finite nei polverosi archivi, senza neppure sfiorare la verità, in quanto ai vari livelli (giudiziario, istituzionale e dei servizi) avrebbe prevalso il timore di scoprire, indagando a fondo, le responsabilità politiche, ministeriali, delle greche e degli ermellini.

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