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di SAVERIO MUSOLINO
Con una recente decisione dello scorso 7 aprile (n.115) la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la disposizione dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 – Testo Unico degli enti locali, nella parte modificata dall’art. 6 del D.L. n. 92/2008, contenente il c.d. “pacchetto sicurezza”, che consentiva ai sindaci di emanare ordinanze di contenuto normativo, anche in assenza dei tradizionali requisiti di necessità ed urgenza, purché dettate dall’esigenza di “prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. I sindaci avevano utilizzato questo strumento dettando disposizioni tra le più variegate: dalle note ordinanze antilucciole (che multavano chi contrattava con le prostitute) e antiaccattonaggio (anche quello non molesto) a quelle antibivacco (con divieto di consumare un panino o una birra sulle panchine o sulle scalinate dei monumenti), antifumo (sulle spiagge e nei parchi), fino a quelle che vietavano di stazionare nei parchi in gruppo. Non sono state infrequenti le reazioni da parte degli stessi cittadini (perché, accanto a chi plaudiva a queste iniziative, vi era chi si opponeva in nome dell’esigenza di non limitare le libertà individuali). Nel mondo giuridico si era sollevato un ampio dibattito sulla ammissibilità di simili provvedimenti, peraltro attribuiti alla competenza del sindaco non quale rappresentante della comunità locale, ma come ufficiale di governo, consentendo al primo cittadino di sovrapporsi alle competenze attribuite agli stessi consigli comunali, in ordine alla disciplina di polizia urbana. La decisione della Corte ha conquistato subito la ribalta della cronaca e si è attirata gli strali di alcuni sindaci del Nord: si è accusata la Corte di aver emanato una sentenza antifederalista, di voler affondare la volontà di cambiamento del paese, di aver scardinato “un’architrave del federalismo, parola che è stata inserita in Costituzione con la riforma del titolo V”. Da opposte direzioni, la sentenza è stata salutata con favore, nell’auspicio che faccia venir meno tutti quei variegati e spesso bizzarri divieti, talvolta neppure conosciuti ai cittadini multati, essendo validi dentro i confini di ogni singolo Comune: una situazione che, secondo queste critiche, aveva riportato l’Italia al tempo dei Comuni medievali e che, nel nome della prevenzione e della sicurezza, aveva finito per limitare troppo le libertà individuali dei cittadini. Ce n’è abbastanza per provare a mettere ordine e fare chiarezza, restando ancorati al profilo giuridico, sulla linea della decisione della Consulta, che opera indiscutibilmente su un piano giuridico, senza sconfinare in valutazioni di opportunità politica, che la Corte non ha fatto e non poteva fare. Sotto questo profilo appare infondato affermare che alla Consulta sarebbe mancato il buon senso. Ciò premesso, non si può negare che da questa sentenza, pronunciata secondo i crismi giuridici, conseguano rilevanti effetti sul piano politico, ma su questo profilo toccherà al legislatore intervenire. Certo è che l’accusa di aver emanato una sentenza antifederalista appare frutto di una equivoca lettura dei precetti costituzionali. L’argomento è tecnico ma cercheremo di renderlo comprensibile anche ai non addetti ai lavori. La riforma del Titolo V della Costituzione in senso federalista, del 2001, ha effettivamente inteso spostare l’asse delle competenze, delle decisioni, dal centro (Stato) verso la periferia, privilegiando quegli enti che, in quanto più vicini al cittadino (Regioni e autonomie locali) possono assumere decisioni più adeguate per la tutela degli interessi delle comunità locali: questo assunto è espressione del c.d. principio di sussidiarietà, codificato in Costituzione dalla predetta riforma, ma che nella decisione in oggetto non rileva affatto. Vi sono infatti nel nostro ordinamento dei settori di rilevanza nevralgica che, anche dopo la riforma dell’art. 117 Cost., non possono essere disciplinati se non dallo Stato, quindi a livello centrale: uno di questi è appunto la sicurezza pubblica, settore al quale va ricondotta la c.d. sicurezza urbana. Era stata proprio la Corte costituzionale, con una decisione del 2009, a preservare la medesima disposizione in un giudizio nel quale le autonomie territoriali avevano contestato la competenza del legislatore statale, in nome di istanze autonomistiche. Del resto, se il Parlamento ha potuto varare una simile disciplina è proprio perché la “materia” disciplinata consentiva al legislatore statale di prevalere sulle competenze delle regioni e delle autonomie locali: se la Corte avesse, nel precedente del 2009, fatto prevalere le istanze autonomiste (ammesso che la cosa fosse giuridicamente possibile), avrebbe dovuto sin da allora dichiarare illegittima la norma statale, ritenendola invasiva delle competenze regionali e degli enti locali. Se l’ha salvata è perché il federalismo con questa norma non c’entra affatto, tanto è vero che i poteri non sono attribuiti al sindaco in quanto espressione della comunità locale, ma solo in quanto ufficiale di governo: è quanto meno curioso che, da parte di chi riveste incarichi di responsabilità politica, si tenda a confondere questi due piani. Un po’ come confondere il presidente della Giunta provinciale con il prefetto: entrambi operano sul territorio e sono vicini alla comunità, ma indubbiamente solo il primo agisce a nome della comunità locale, mentre il secondo rappresenta il Governo nello stesso territorio di riferimento. Ebbene, le competenze del sindaco, nel caso in esame, sono assimilabili a quelle del prefetto (il quale ha anche poteri di vigilanza nei confronti del sindaco, oltre al potere di concedere l’uso della forza pubblica per l’attuazione delle ordinanze sindacali). Non è peraltro neppure vero che la Consulta sia stata insensibile alle istanze di sicurezza provenienti dai territori, risultando che la stessa Corte, pur davanti ad una novità dirompente, quale è l’attribuzione ai sindaci del potere di emanare ordinanze di contenuto normativo anche in assenza dell’imminente necessità di affrontare situazioni impreviste (che non si possono superare con i rimedi ordinari) non ha negato l’ammissibilità nel nostro ordinamento di tali strumenti. La Corte si è limitata ad affermare che questi particolari poteri, che indubbiamente comprimono le libertà individuali dei cittadini, non possono essere esercitati con una discrezionalità assoluta, ma devono, per rientrare nell’alveo costituzionale, operare nell’ambito di precisi limiti individuati con una legge, in ossequio all’art. 23 della Costituzione che, a garanzia dell’individuo (e quindi di chiunque, non solo di chi è cittadino), vieta l’imposizione di obblighi di dare, fare o non fare non previsti in una legge (ciò anche perché la legge è emanata dal Parlamento, diretta espressione della sovranità popolare). Nel caso di specie, questo requisito non c’era e non si poteva certo usare il “buon senso” per superare una ferrea garanzia costituzionale. La stessa Corte tuttavia ha indicato la strada da seguire per uscire dall’impasse: far sì che le limitazioni alla sfera d’azione delle ordinanze sindacali, attualmente individuate con un decreto del ministro dell’Interno del 5 agosto 2008, quindi con un atto governativo, vengano introdotte con un provvedimento legislativo. Resta tuttavia da esaminare quale sarà la sorte delle ordinanze sindacali già emanate sulla scorta della disposizione dichiarata parzialmente illegittima. La risposta è agevole in astratto: gli stessi sindaci dovrebbero provvedere alla materiale rimozione delle ordinanze inficiate, già giuridicamente inesistenti, in ossequio alla certezza del diritto e nell’interesse degli stessi cittadini, i quali si troverebbero altrimenti costretti ad affrontare onerosi ricorsi al giudice per l’annullamento della sanzione eventualmente loro comminata. In questi giorni si assiste tuttavia ad uno strano fenomeno, con una serie di “distinguo” da parte di vari sindaci, ciascuno intento a precisare che le proprie ordinanze non sono destinate a venir meno, perché si tratterebbe, il più delle volte, di provvedimenti temporanei (a scadenza annuale) e non a tempo indeterminato. Questa distinzione lascia alquanto perplessi, in quanto solo se l’ordinanza risponde ad una esigenza temporanea (ed è dettata da uno stato di necessità) rientra nella fattispecie tradizionale tuttora rimasta in vigore: la circostanza che si adotti un limite temporale (peraltro relativamente lungo e sistematicamente reiterato) non la pone, a nostro avviso, al riparo dagli effetti della sentenza. Va peraltro considerato che tutta una serie di provvedimenti, tra quelli emanati, anche quelli di contenuto bizzarro (quali il divieto di uso di minigonne o zoccoli o di consumo di cibo in strada), non risulta spesso emanata in forza della disposizione colpita dalla Consulta, ma sulla base di regolamenti di polizia urbana, provvedimenti che non vengono incisi automaticamente dalla sentenza. In sostanza, la decisione della Corte è rigorosa e certamente non contraria allo spirito autonomistico che – pur nel rispetto dei principi di unità e indivisibilità – anima la Costituzione: quanto agli effetti e alle conseguenze per i cittadini, si apre una fase di incertezza, che imporrà di individuare in tempi relativamente rapidi dei criteri di pronta applicazione per rimuovere le ordinanze interessate (magari con il ricorso, ove indispensabile, ai poteri sostitutivi dei prefetti), in attesa che si riesca ad emanare una nuova disciplina legislativa nel senso auspicato dalla Corte. Occorre peraltro far attenzione a non ridurre tutto ad un mero fatto formale: potrebbe non bastare la mera trasposizione in un atto legislativo delle stesse disposizioni già contenute nel citato decreto del ministro dell’Interno, come pure si è sostenuto anche da parte di quest’ultimo. In realtà, la Corte ha ritenuto il passaggio legislativo condizione necessaria perché essa possa valutare l’idoneità dei limiti a circoscrivere la discrezionalità amministrativa dei sindaci, ma non sembra aver dato alle disposizioni contenute nel decreto del 2008 alcuna patente preventiva di legittimità: una simile valutazione interverrà solo se e quando verrà chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla futura disciplina legislativa. Un criterio però traspare dalla sentenza: il potere dei Sindaci di dettare norme ritenute adeguate alle esigenze di sicurezza urbana dei loro comuni potrà dar luogo ad “adattamenti o modulazioni di precetti legislativi generali in vista di concrete situazioni locali”, ma non potrà concretizzarsi in vere e proprie disparità di trattamento tra cittadini, pena la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.): la legge dovrà individuare un comune parametro legislativo, che ponga le regole ed alla cui stregua si possa verificare se le diversità di trattamento giuridico siano giustificate dalla eterogeneità delle situazioni locali. Ci attende pertanto un periodo tutt’altro che denso di certezze.

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