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di CLAUDIO DI TURI
La drammatica escalation bellica in Libia, oltre a suscitare gravi preoccupazioni per l’ulteriore aggravamento della situazione politica in Nord Africa, pone numerosi interrogativi circa la legittimità della reazione armata della Comunità internazionale al trattamento inflitto dal Colonnello Gheddafi alla popolazione libica e, parallelamente, delle decisioni politiche che ne hanno costituito il presupposto, ossia due risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Né è possibile tacere sulle conseguenze che il coinvolgimento militare diretto dell’Italia nelle operazioni ha sul trattato bilaterale con la Libia, firmato nel 2008 e ratificato nel febbraio del 2009. Nella risoluzione n.1970/2011 il Consiglio di sicurezza Onu, nel constatare la condanna del regime libico ad opera della Lega araba e dell’Unione africana, esprimeva preoccupazione per il ricorso alla violenza e le gravi violazioni dei diritti dell’uomo commesse contro la popolazione civile dal governo del paese nord-africano, apparentemente tali da configurare l’esistenza di crimini contro l’umanità. Pur ribadendo il diritto della Jamahiriya araba libica al rispetto della propria sovranità, indipendenza e integrità territoriale, il Consiglio di sicurezza imponeva alla Libia di rispettare i propri obblighi internazionali sui diritti umani e il diritto internazionale umanitario permettendo l’immediato accesso nel Paese a funzionari internazionali col compito di verificarne l’adempimento, deferendo, allo stesso tempo, la questione al Procuratore della Corte penale internazionale e invitando tutti gli Stati a cooperare con tale organo. La risoluzione prevedeva pure l’embargo sulla vendita di armi alla Libia, nonché il congelamento dei beni e il divieto di concedere visti di viaggio per la famiglia Gheddafi e le personalità del regime più vicine alla famiglia del Colonnello; e a verifica del rispetto di tali impegni e in linea con una prassi già consistente in tema di sanzioni nei confronti del terrorismo internazionale, veniva creato un apposito Comitato Onu. A tale provvedimento faceva seguito, sempre in sede Onu, la non meno importante decisione dell’Assemblea generale Onu di sospendere la Libia dai diritti di voto in seno al Consiglio per i diritti umani in conseguenza delle gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani (ris. 65/265, del 3 marzo). Nella successiva ris. 1973, del 17 marzo, adottata con una maggioranza di 10 voti, nessuno contrario e cinque astensioni (Germania, China, Federazione russa, Brasile, India) il Consiglio di sicurezza, nel valutare che l’istituzione di un divieto di volo sugli spazi aerei libici rappresenta un importante elemento a difesa della popolazione civile e un passo verso la cessazione delle ostilità, e che la situazione del Paese costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, facendo ricorso ai poteri specificamente previsti dal cap. VII della Carta Onu (significativamente intitolato: “Azione in caso di minaccia contro la pace, rottura della pace e aggressione”) decide l’immediato cessate il fuoco e la cessazione della violenza contro i civili autorizzando gli Stati membri Onu unilateralmente o attraverso accordi o organizzazioni regionali (es. Nato) purchè in cooperazione con il Segretario generale Onu ad adottare tutte le misure necessarie a proteggere i civili, ad esclusione di ogni forma di occupazione territoriale della Libia o di mutamenti della forma di Stato o governo in carica. Quanto alla c.d. “no-fly zone”, disciplinata in altra parte della risoluzione del Consiglio di sicurezza (e pertanto da non confondere con le norme pocanzi citate, relative alla “protezione dei civili”) essa vieta tutti i voli nello spazio aereo libico, salvi i voli umanitari e, ambiguamente, autorizza gli Stati membri unilateralmente o attraverso i già menzionati accordi regionali ad adottare ogni misura che fosse necessaria “per il benessere del popolo libico” ad assicurare l’osservanza del divieto di sorvolo. Per parte sua, l’Unione europea decideva di recepire le sanzioni decise dall’Onu a livello internazionale con decisione PESC n.137/2011 del Consiglio, cui faceva seguito il regolamento n.204/2011 del Consiglio a dimostrazione evidente del fatto che, con il nuovo Trattato di Lisbona, l’Unione europea “promuove la rigorosa osservanza e lo sviluppo del diritto internazionale, in particolare i principi sanciti nella Carta Onu” (così le “Disposizioni comuni” del Trattato sull’Unione europea). Quanto alle relazioni bilaterali Italia-Libia, l’art. 3 del citato Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione (intitolato: “Non ricorso alla minaccia o all’impiego della forza”) dispone il divieto per le Parti ad usare la forza “contro l’integrita’ territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite”; mentre l’art. 4 (”Non ingerenza negli affari interni”) prevede che le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte…(e che) nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia.”. Sulla base della normativa citata, e mentre la crisi internazionale è ancora in atto, credo sia possibile formulare alcune brevi riflessioni circa il rapporto tra le azioni belliche e il diritto internazionale. In prima battuta, è innegabile che il Consiglio di sicurezza abbia dato prova di una certa efficienza, adottando le disposizioni che hanno consentito ad un gruppo di Stati di agire a difesa dei diritti umani di una popolazione gravemente minacciata. Meno certa è la valutazione circa la legittimità di quelle risoluzioni e, soprattutto, delle modalità della loro attuazione. Se, infatti, è certo che il Consiglio di sicurezza possa autorizzare raggruppamenti di Stati riuniti all’interno di Organizzazioni regionali (la Nato) ad usare la forza purché sotto la propria direzione; e se attraverso la prassi Onu si è pure consentito nei sessanta anni di vita dell’Organizzazione l’uso della forza a coalizioni di Stati posti sotto il comando militare di alcuni di essi ma politicamente dipendenti dal Consiglio di sicurezza, costituisce senza dubbio un precedente importante l’autorizzazione, contenuta nella ris. 1973 a singoli Stati ad usare ogni mezzo necessario (che nel linguaggio Onu significa: compreso l’uso della forza) ad attuarne il dispositivo. E’ quanto ha fatto la Francia, da subito in prima linea nell’attacco alla Libia, con azioni belliche che dietro il paravento della protezione ai civili nascondono il tentativo di mettere alle corde un regime in violazione della risoluzione e del diritto internazionale che esige il rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di uno Stato. Sono i popoli, come hanno dimostrato le vicende della Tunisia e dell’Egitto, a godere del proprio diritto di autodeterminazione e non altri Stati a doversi improvvisare “giustizieri” della legalità internazionale. E ciò soprattutto nei confronti di un regime con il quale, fino a qualche settimana fa, si facevano affari di ogni tipo e il cui leader era accolto ovunque con tutti gli onori. Per lo stesso ordine di ragioni, ritengo che la condotta dell’Italia, nel fornire appoggio logistico con le proprie basi aeree e garantendo l’intervento (limitato) della propri aviazione militare violi le citate disposizioni dell’accordo italo-libico: le dichiarazioni del ministro Frattini, che fanno riferimento ad “una Libia del futuro, che dovrà ripartire da zero” (Ansa), ledono senz’altro il principio della non ingerenza negli affari interni di un Paese di cui le Nazioni Unite hanno ribadito la necessità di preservare l’integrità territoriale e l’indipendenza politica. E’ vero che in una recente, celebre risoluzione dell’Assemblea generale si è affermato che gli Stati hanno la responsabilità di “proteggere le proprie popolazioni dai crimini contro l’umanità” e che l’Onu ha il dovere di usare ogni mezzo teso a impedire tali crimini. Ma ciò deve essere fatto “in conformità con la Carta Onu” (ris. 60/1, 2005), e non può e non deve autorizzare singoli “Stati volenterosi” all’impiego di mezzi coercitivi, quando la loro condotta non appaia chiaramente riconducibile all’interno di Organizzazioni internazionali (Nato) che rispondano politicamente al Consiglio di sicurezza, unico organo incaricato di controllarne le operazioni militare evitando che le finalità di queste travalichino quanto previsto nel mandato istitutivo.

*Docente di Diritto internazionale
Facoltà di Scienze politiche Unical

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