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di LIDIA PICCOLI
La Calabria cammina sui passi della storia ripetendo il circolo, quello dell’eterno ritorno dell’uguale. La Calabria è terra di provvidenza, terra dove la provvidenza ha, nel potere, basi forti. Irremovibili ed eterne. Terra di conquista e di conquistatori, abusata e sfruttata. Ripercorrere il suo agire nel corso del tempo può rafforzare la tesi di un sostanziale immobilismo che lega il calabrese alla sua casta. Poco teso a pagare il prezzo del nuovo, diffidente e scaltro nel cogliere tutto ciò che c’è da cogliere, egli ha anche vestito i panni del brigante facendosi forte in quella frase” si stava meglio quando si stava peggio”. Legato al Sovrano borbonico e contro uno Stato che ne soffoca le libertà, cancellandone le autonomie, il brigante sembrerebbe essere l’antieroe risorgimentale di Calabria. Opposto ad esso quella manciata di illuminati che vollero vestire la giubbe rosse. Due schieramenti diversi, dunque, nel sentire e nel vedere un’unica realtà. Oserei dire, operando una forzata sintesi, conservatore l’uno, anticipatore di nuovo l’altro. Ovviamente la posizione, volutamente prospettica, tesa ad analizzare l’atteggiarsi del popolo calabro di fronte a nuovi fermenti, castiga oltremisura il fenomeno brigantesco. Ma sorvolando su tale periodo, altro eclatante fatto avviene nell’Italia liberata dal giogo fascista. Nell’atto referendario, per esplicare la scelta se stringersi intorno al Re o rendere plauso all’idea mazziniana di Repubblica, la Calabria non si smentisce. Ancora divergenza tra un Nord progredito e antimonarchico, e un Meridione sentimentalista e rétro nelle idee e nell’azione. Questo breve corollario ci richiama all’oggi. Quasi a voler dar significato a quella proverbiale frase: «Il lupo perde il pelo ma non il vizio». E da vizio in vizio, la Calabria rimane sorda ad ogni qualsiasi forma di protesta. Prona e inchinata dinanzi al potere di cui tesse le maglie e ne trama la vittoria. Statica e ferma in una concettualizzazione scevra da meriti, ella inneggia ancora al capo carismatico della prebenda. Del resto nulla di nuovo si è mosso sotto questo cielo per cambiane i tratti. Buona parte delle giovani leve , quella bella gioventù che gravita nelle aule, è stata tirata su a doni ed elargizioni. Che dentro i capi griffati , ci sia soltanto pressappochismo , arroganza , presunzione e tanta ignoranza, non sembra ledere gli interessi di nessuno. La docenza è lavoro duro se a fare il docente è ancora quella coraggiosa e sana onestà intellettuale. Che dentro le aule, e soprattutto a fine anno , sa schierarsi contro. Contro ogni illecita forma di pressione, contro quel becero sentimentalismo che ammanta responsabilità e compromessi. Perché, diciamocela tutta, se sui social network leggiamo improprie lezioni di deresponsabilizzazione, dove il fatto locale non sembra allacciarsi alla politica nazionale, dove si acclama la persona e non lo schieramento che essa rappresenta a livelli più ampi, allora vuol dire che la scuola ha fallito nel suo compito prioritario. Quello di attivare i cervelli, di forgiare capacità critiche, di allargare gli orizzonti. E ancor più di legare i giovani a nuovi modelli, a nuove sintesi, a nuove idee. Quelle idee che camminano sulle gambe della protesta facendosi innovazione concreta. Innovazione non lasciata in mano a quattro aedi che strimpellano suoni per arricchire le loro tasche e far lustro di sé. Combattere l’assistenzialismo improprio, è non solo lezione morale alta, ma concreta lezione di legalità impartita nell’aula attraverso comportamenti scevri da qualsivoglia inciucio. Perché la lotta alle mafie è impegno educativo doveroso che deve concretizzarsi nell’azione. Così come, il doveroso sguardo al passato deve aprirsi sul presente, per capirne i nessi, le contraddizioni, le storture, l’illogica incoerenza dei nuovi partiti. Quelli che oggi troviamo schierati nella destra berlusconiana e che nei manuali vengono riccamente citati come appartenenti ad altra matrice ideologica. Quale fine ha fatto dunque il partito di Nenni? La domanda merita una risposta che non può essere taciuta. E perché quel partito di Casini che reclama nuova dimora in un rinnovato centro , e muove forti critiche contro il Cavaliere, rimane in bilico nelle “postazioni di confine”? Mi sovviene, a tal proposito, la metafora del funambolo raccontata da Nietzsche in Così parlò Zarathustra. E come non raccontare poi ai nostri giovani che si apprestano ad essere cittadini, ovvero partecipi di democrazia, dell’uomo di oggi violentato dagli anatemi televisivi, dalla menzogna estetica che confonde il bello con l’utile, il giusto con l’interesse del singolo? Tutto ciò può, e deve servire, per lanciare moniti a coloro i quali vogliano essere artefice coscienti della loro vita. A coloro i quali si muovono, o si muoveranno, nei variegati scenari della politica nostrana con l’intento prioritario di non lasciarsi ridurre ad individuo “vissuto” o “giocato” dagli schiaccianti ingranaggi della menzogna. Ma tutto ciò deve essere anche guida di una scuola che in Calabria ha responsabilità altissime, quelle di recidere vecchie logiche attraverso un’innovazione di contenuti e strumenti. Di una scuola non immaginifica ma reale, che sappia vigilare sul territorio contestandone le inadeguatezze e facendosi promotrice di cultura forte, pronta a respingere l’ignoranza dei più e la sottomissione dei molti. Lasciare che la cultura diventi momento di spettacolo è anche cosa buona se la spettacolarizzazione non sia approssimazione indebita, nata dal caso, superficie logorante e deleteria, castello di orpelli altri. Ed è questo illecito che deve essere bandito. Ed è anche verso questo proliferare di menestrelli che il sapere, quello vero, nato da impegno e studio, deve porre resistenti barricate. La Calabria deve alleggerire le sue gabbie mentali per poter volgersi con sguardo nuovo alla ricerca di una verità che sappia travalicare gli stantii spazi della nostra memoria. Quella memoria che ci fa ancora oggi essere figli di un Dio minore. Chiedersi perché avvenne l’eccidio a Bronte è dare risposta al perché i Baroni, anche sul nostro suolo, legarono le loro aspirazioni allo Stato unitario. Quello stesso in cui proliferò la mafia che fece del Meridione terra malferma. Terra del malaffare. Apprendere che la storia, quando voglia insegnare qualcosa fuori dalla momentanea commemorazione, debba allargare il suo orizzonte e farlo uscire fuori da ogni lembo di terra regionalistico, è ulteriore dovere di chi nell’aula voglia formare menti. Giovani capaci di non lasciarsi irretire da scaltri profeti di surrogati e memorie.

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