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di TOMMASO GRECO
Dopo aver visto finalmente quali sono le misure che il governo Monti ha intenzione di mettere in atto, e dopo aver rilevato per l’ennesima volta l’abisso antropologico che ci separa dal recente passato (da questo punto di vista, sono assolutamente propenso a credere nella sincerità delle lacrime del ministro Fornero), occorre sforzarsi di esercitare un minimo di capacità critica, con l’intenzione (o l’illusione) di contribuire ad un dibattito pubblico nel quale in questione è, né più né meno, che la salvezza del nostro Paese. Tutti ripetono, compreso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che è purtroppo giunto il tempo di fare quelle scelte “impopolari” che sono state sempre rinviate. Sappiamo quali sono gli obiettivi di tali scelte: pensioni, innanzitutto, seguite dalle case e dai conti correnti, dalle spese per la sanità pubblica, dalla riduzione delle cariche amministrative. Si capisce che, soprattutto quando si vanno a toccare beni e servizi che riguardano indistintamente la generalità dei cittadini, le scelte che si vanno a compiere non possono che apparire (ed essere) impopolari. Non si può che notare, a questo riguardo, la sostanziale compostezza del popolo italiano, che dimostra di voler affrontare con vero spirito di sacrificio – e con piena consapevolezza di cosa sia in gioco – le gravi misure alle quali il governo lo sottoporrà per gli anni a venire. E tuttavia, si ha la sensazione che – solo che se ne avesse il coraggio o la forza di assumerle – tutta una serie di scelte, anziché impopolari, sarebbero piuttosto assai popolari e potrebbero avere il sostegno convinto e grato di una grandissima maggioranza del popolo italiano. Certo, ciò che serve ad un governo nel nostro sistema politico sono l’appoggio e la fiducia del Parlamento e non quelli dei cittadini; ma difficilmente il Parlamento potrebbe negare la fiducia ad un esecutivo le cui misure godessero di un larghissimo consenso sociale. Tra quelle che possiamo chiamare le “misure popolari” che farebbero un gran bene all’Italia ce ne sono alcune facilmente individuabili: prima tra tutte, la vendita (e non la cessione gratuita) delle nuove frequenze televisive, di cui parlava Giovanni Valentini su “la Repubblica” del 2 dicembre e che porterebbe nelle casse dello Stato – stando alle stime circolanti tra gli esperti – un gettito di sedici miliardi di euro (praticamente, i tre quarti della manovra appena varata). Solo a dirlo, si stenta a credere che un simile tesoro venga abbandonato da un governo che ha responsabilità così serie per il futuro del Paese. Si aggiunga un taglio davvero drastico ai costi della politica, guardando non tanto alla politica che si fa sul territorio (penso soprattutto ai Comuni) ma a quella delle istituzioni centrali dello Stato e per la quale sopportiamo i costi di una serie di privilegi francamente inaccettabili. Ai tagli della spesa politica si potrebbe affiancare (anche per il senso di giustizia che ne deriverebbe) una resa dei conti più seria, ben al di là dell’1,5% contenuto nella manovra Monti, con i titolari di capitali scudati e con tutti coloro che in questi anni hanno prosperato a spese pubbliche: a puro titolo di esempio cito i responsabili di fallimenti liquidati a suon di milioni (Cimoli & Co.), i beneficiari dell’af-faire Alitalia (nome, questo, di un vero e proprio “scandalo” a danno del bene comune, non rilevato dai nostri media); gli evasori dichiarati della cosiddetta Padania per i quali abbiamo dovuto pagare multe salate per le “quote latte”. Ognuno aggiunga quel che il proprio spirito e la propria vigile memoria gli suggerisce. Personalmente, chiudo le mie “modeste proposte” con quella relativa ad un ripensamento del meccanismo dell’8 per mille – che potrebbe avere un valore anche simbolico e che darebbe, peraltro, alla Chiesa italiana la possibilità di riacquistare molta della credibilità perduta con l’appoggio al governo precedente -, nonché una ragionevole riduzione delle spese militari, le quali sembrano rappresentare una sorta di tabù su cui non si può mai avviare un discorso. Ci si potrebbe chiedere come mai misure come quelle ricordate non vengano mai prese in seria considerazione. Un suggerimento importante lo possiamo ricevere dai classici del pensiero politico. In questi casi, infatti, emerge in modo lampante il limite di alcune nozioni come quella di “bene comune” e soprattutto di “volontà generale (o popolare)”, che in modo evidente stanno alla base della ritrovata unità nazionale. Sarebbero forse da prendere più sul serio coloro che – in primis Machiavelli e Spinoza – non avevano timore a rappresentare la polis attraverso i suoi “umori”, dandone per scontata la divisione in “parti” che hanno interessi contrastanti se non opposti. Ecco: probabilmente – nel talora profondo ripensamento a cui la teoria democratica sta lavorando in questi anni – non sarebbe male una riflessione critica sulla nozione (di marca rousseauiana) di una indistinta ed omogenea “volontà popolare”, sulla quale bene o male si basano anche le costituzioni dei nostri tempi. Forse biso-gnerebbe inventare istituzioni capaci di rappresentare e di far fruttare politicamente quel “conflitto” che secondo Machiavelli aveva reso libera Roma. Non è difficile immaginare che, se avessimo avuto a disposizione istituzioni in grado di dar voce ai diversi “umori” del Paese (mai così evidenti nella loro diversità, come negli ultimi anni), le misure alle quali staremmo andando incontro sarebbero in gran parte diverse. Molto meno impopolari e assai più popolari, e probabilmente non meno efficaci nel lungo periodo, anche per riannodare il tessuto civile del nostro Paese.

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