X
<
>

Condividi:
5 minuti per la lettura

di EMILIO SIRIANNI
Il Capo del Governo ha dichiarato: «Un premier non può essere al di sopra della legge. Se devo scegliere tra me, la consapevolezza di essere innocente e il fatto che restando al mio posto possa mettere in grave imbarazzo il paese che amo e che ho l’onore di rappresentare, non ho dubbi: mi faccio da parte, perché anche un primo ministro deve essere giudicato come tutti gli altri». E ancora: «Voglio che sia chiaro che sono fiero di far parte di uno Stato in cui un premier può essere investigato come un semplice cittadino: proverò la mia innocenza». Ed ogni cittadino ha motivo d’essere fiero di un tale capo di Governo, d’avere quella stessa fierezza con la quale Pericle pronunciò il suo famoso “discorso agli ateniesi”, definendo la sua città “scuola dell’Ellade”, perché qui – egli diceva – «ci hanno insegnato a rispettare i magistrati, e ci hanno anche insegnato a rispettare le leggi». Purtroppo quel premier non era il nostro, ma il primo ministro israeliano che, messo sotto accusa dai giudici del suo paese per finanziamenti elettorali illeciti, rendeva queste dichiarazioni nel luglio del 2008. Il premier di un paese, cioè, da oltre cinquant’anni coinvolto in teatri di guerra e che, pure, non si sogna di sentirsi superiore alla legge o di contrapporre gli impegni di Governo alle esigenze della giustizia. A differenza del nostro, che nell’aprile 2010 mandava i suoi difensori ad eccepire, nel processo Mills, il legittimo impedimento, perché doveva occuparsi del riordino del processo amministrativo e del problema della diffusione del gioco del golf in Alto Adige (Milano, 16.4.2010). A differenza del nostro, che a nulla ritiene di potersi assoggettare, legge compresa, perché per lui non può valere ciò che vale per tutti quanti gli altri e della legge ritiene di poter disporre ogni qual volta se ne presenti la necessità. Anzi della legge egli, purtroppo, dispone, visto che ormai da quindici anni le sue maggioranze si sono sempre fatte trovare pronte a confezionargli quella su misura per l’occasione processuale di turno. Il tutto sempre accompagnato da militaresche precettazioni dei parlamentari, schieramento d’armate mediatiche, questioni di fiducia, travisamento o vera e propria alterazione di fatti e dati ed il consueto, tartufesco, espediente d’affidare la proposta allo sconosciuto peone di turno, per poter poi dire o far dire che il Governo non c’entra nulla perché si tratta d’un’iniziativa parlamentare. Trucchetti da fiera dei quali si vorrebbe poter ridere, ma è difficile farlo. Almeno per chi ogni giorno deve guadare gli occhi di quegli italiani qualunque che a questo Stato devono affidarsi per ottenere giustizia. Perché quasi nessuna delle cosiddette “leggi ad personam” – delle quali il pm Spataro ha redatto un elenco completo nel suo bel libro “Ne valeva la pena”, impressionante a scorrere – è passata senza che qualcuno pagasse un prezzo. Come creditori e soci di minoranza dei falsificatori di bilanci societari, i cui reati sono ormai sostanzialmente abrogati. Come i tanti che hanno avuto la vita segnata, spesso rovinata, dai criminali in colletto bianco, cioè quelli che truffano, corrompono, frodano. Qui da noi in Calabria, per esempio, abbiamo i recordman delle truffe comunitarie. Quei rispettabili imprenditori, funzionari, professionisti, tutti dalla fedina penale immacolata – e che tale rimarrà, grazie a questa produzione legislativa – che hanno arraffato centinaia e centinaia di milioni di euro stanziati dalla Comunità Europea. Di poche settimane fa è la notizia dell’assoluzione in appello, esattamente per prescrizione, degli autori di quella che è stata definita la più grande truffa comunitaria mai realizzata. Mi pare si trattasse di 60 milioni di euro. Soldi, dovremmo tutti tenerlo bene a mente, che non erano soldi di nessuno, ma nostri. Soldi che avrebbero dovuto sollevare questa terra e i suoi cittadini da quell’ultimo posto europeo in termini di sviluppo economico e sociale nel quale da sempre è relegata. Erano soldi di ciascun lavoratore calabrese rimasto in mezzo a una strada, di ogni bambino costretto ad ammalarsi in scuole umide e fatiscenti, di ogni anziano che attende per mesi o anni l’esame clinico che potrebbe salvargli la vita. Ci hanno rapinati e continueranno a farlo ancor meglio di prima grazie all’ulteriore taglio ai termini di prescrizione che la Camera ha licenziato ieri fra gli osanna della maggioranza parlamentare e l’attivismo frenetico di alcuni deputati e sottosegretari calabresi. A noi tocca ancora il dolore e la fatica del ragionamento, ma anche il dovere dell’indignazione. Non c’entra nulla, ovviamente, la raccomandazione dell’Europa sulla lentezza dei processi italiani, per il semplice motivo che la prescrizione non ha a che fare con il processo, ma con il reato. La prescrizione non abbrevia il processo, elimina il reato. Per l’esattezza, con la prescrizione lo Stato afferma di non avere più interesse a far punire gli autori di quel reato. Così sintetizza la Corte Costituzionale: la prescrizione corrisponde «all’interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venire meno, o notevolmente attenuato, insieme al loro ricordo, anche l’allarme della coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l’acquisizione del materiale probatorio» (sentenza n.2020 del 1971). I casi recenti e più noti di gravi reati che rischiano fortemente di essere cancellati sono stati ricordati dai parlamentari d’opposizione e dai parenti delle vittime che manifestavano in Piazza Montecitorio: dal disastro di Viareggio alle morti della Thyssen; dalle morti per amianto a quelle del terremoto dell’Aquila; dal crac della Parmalat a quello della Cirio. Il ministro Alfano ha snocciolato dati palesemente poco credibili riguardo alla data di prescrizione di alcuni di questi reati. Spero a breve di potere diffondere i dati esatti: la prescrizione arriverà molto prima di quanto dice il ministro. Una domanda, però, bisogna subito farsela: ai parenti di quei morti, alle migliaia di cittadini rovinati dai pescicani della finanza, ma anche a noi tutti calabresi privati di centinaia di milioni di euro “europei” da una classe dirigente ed imprenditoriale gaglioffa che dirà lo Stato? Non provi a dire che l’allarme nelle nostre coscienze per quei reati sarà, quel giorno, “attenuato”, che ne sarà “attenuato” il ricordo. Non ce lo dica perché non sarà così e, dunque, non è certo per noi che l’altro ieri si è legiferato.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE