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di ENZO ARCURI
Ed alla fine si è capito perché, a fronte di interventi per milioni di euro, il mare calabrese ha continuato ad ammalarsi facendo scappare bagnanti e vacanzieri e penalizzando pesantemente l’economia di larga parte delle aree costiere della regione. Finalmente, dopo anni di inazione, c’è stato un giudice a Berlino che ha deciso di fare chiarezza e di venire a capo o comunque di cominciare a sbrogliare una matassa che ha rischiato (e rischia ) di compromettere in maniera irreversibile le potenzialità del turismo calabrese in larga misura alimentate dalla presenza di oltre settecento chilometri di coste. Questo giudice è il procuratore della repubblica di Paola che, dopo anni di tentennamenti, di tentativi presto archiviati, di inchieste aperte e subito riposte nei cassetti, ha preso, come si dice, il toro per le corna, ha indirizzato le indagini sui binari giusti con determinazione e con la voglia di arrivare la dove i suoi precedessori non avevano saputo (o voluto ) arrivare. L’inchiesta è ancora nella fase iniziale ma già fin d’ora si intuisce che la direzione è quella giusta per smascherare i responsabili dell’avvelenamento del mare, un crimine ambientale di estrema gravità che oltre a mettere a rischio la salute dei cittadini ha frenato e vanificato ogni prospettiva di sviluppo, mandando in malora tutte le risorse pubbliche investite nel settore e mortificando progettualità e spirito di iniziativa di tanti coraggiosi imprenditori. Al termine di un paziente lavoro di indagine che ha impegnato per oltre un anno i nuclei specializzati dei carabinieri e della Guardia di Finanza, sono arrivate le prime conclusioni. Sono conclusioni sconcertanti e clamorose che hanno convinto il gip dello stesso tribunale di Paola a firmare i primi due provvedimenti di custodia cautelare. Insomma dai primi esiti delle indagini abbiamo appreso che coloro i quali erano stati incaricati (e per questo lautamente remunerati ) di assicurare la salute del mare, avevano, invece, per una (si fa per dire) manciata di euro, inquinato il nostro mare con tonnellate di fanghi prodotti dai processi di depurazione delle acque fognarie. I primi a finire nel registro degli indagati sono l’amministratore delegato ed una dirigente della Smeco, la società che da anni gestisce, per conto dei Comuni, larga parte dei depuratori in funzione lungo la costa tirrenica cosentina, quella più gravemente colpita dai fenomeni di inquinamento delle acque anche perché quella che ha subito nel corso dei decenni il più massiccio e selvaggio assalto del cemento. La società, che opera in Calabria da diversi anni, ha stipulato con i Comuni un capitolato d’appalto nel quale sono previsti costi ed obblighi per la gestione dei depuratori. Uno di questi obblighi prevede lo smaltimento dei funghi nelle discariche autorizzate, un obbligo che ha naturalmente per la società un costo che ovviamente è a carico dei comuni. E dunque la Smeco doveva smaltire questi funghi seguendo le rigorose procedure imposte dalle leggi. Invece cosa hanno accertato carabinieri e Guardia di Finanza attraverso investigazioni sul territorio e controllo della documentazione contabile? E’ emerso uno scenario stupefacente, al limite dell’incredibile. I fanghi prodotti dalla depurazione – l’inquietante conclusione degli investigatori – anziché essere smaltiti secondo le procedure imposte dalla legge sono stati scaricati in mare o nei torrenti a monte della costa. Una bomba ecologica che ha avvelenato il mare, compromettendo seriamente il turismo nelle località balneari interessate. S’era capito che al sistema della depurazione, accanto ad un uso scorretto del territorio, erano da addebitare le pessime condizioni del nostro mare, ma si immaginava che questo fosse dovuto a carenze strutturali dei depuratori o ad una gestione approssimativa o scorretta. Mai e poi mai si poteva immaginare quello che gli inquirenti hanno accertato. L’inchiesta non è affatto chiusa, l’indagine dovrà scavare più in profondità ed a tutto tondo, a 360 gradi come si dice, per chiarire come tutto questo sia potuto accadere, quali complicità questa maledetta macchina dell’illegalità ha coinvolto soprattutto all’interno delle istituzioni e degli organi di controllo. Perché non v’è dubbio che le tonnellate di fanghi che, secondo l’accusa, sono stati scaricati in mare o lungo i torrenti, non sono quisquiglie che è facile nascondere. E dunque il sospetto è che c’è chi sapesse ed ha abbozzato e lo ha fatto non per paura ma perché ne ha tratto un qualche vantaggio. Insomma queste prime informazioni fanno ipotizzare che attorno alla depurazione ed alle sue cospicue risorse finanziarie sia stato costruito un altro verminaio, che va esplorato fino in fondo per individuarne le reali dimensioni, al momento appena abbozzate. Intanto non è chiaro, perché nessuno finora, né dalla Regione né dai Comuni, lo ha chiarito, quali riflessi l’inchiesta di Paola con i suoi primi inquietanti risultati avrà sulla gestione dei depuratori. Che continueranno ad essere affidati alla stessa società i cui dirigenti hanno combinato quello che hanno combinato oppure il contratto di appalto verrà disdetto e si avvierà una fase nuova, preferibilmente su basi di maggiore correttezza e trasparenza? E’ uno dei nodi che le istituzioni adesso devono sbrogliare, senza indugi e con determinazione. Non c’è tempo da perdere, se ne è perso già tanto con danni incalcolabili e ricadute negative che non sarà facile rimuovere. La nuova stagione incalza, il sistema della depurazione deve essere messo in grado di funzionare bene per restituire al mare calabrese la sua antica limpidezza. I palazzi delle istituzioni sono chiamati ad un nuovo impegno in tempi brevi e con iniziative radicali ed efficaci. Badando anche e soprattutto a fare piazza pulita di faccendieri, affaristi, corrotti e loro complici.

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