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di FRANCO CIMINO
Di Milano, di Napoli, di Berlusconi, di De Magistris. E della Calabria Questa volta il classico “l’avevo detto io” non c’è. Non c’era infatti nessuno, a destra tacendo ma temendolo, a sinistra, al centro e ovunque gridandolo e sperandolo, che non fosse certo della sconfitta della destra al governo del Paese. Neppure le vaste proporzioni sono una sorpresa. La contesa questa volta non era tra una formula politica e la sua alternativa; non era tra il governo e la sua opposizione. La contesa era tra Berlusconi e il “mondo”, sullo stesso scenario tragicomico che il cavaliere stesso aveva scelto. Il capo e il popolo, questa la sfida così concepita da lui stesso. La storia insegna che quando crollano i regimi il crollo, per quel tanto di trasformismo e quel molto di emotività collettiva, è totale. Milano e Napoli sono le due facce della stessa medaglia, le capitali delle due Italia, finora sfruttate politicamente. Anche con quella doppia strategia di intervento comprese, che vedevano al Nord la Lega parlare un linguaggio e al Sud i tanti Mastella e Romano parlarne un altro, nel mentre la filosofia berlusconiana concedeva risorse a seconda della forza degli interessi e dei poteri in campo. Il Nord dell’Expo 2015 e il Sud del ponte sul nulla. Perde il berlusconismo, quell’idea populista intrisa di liberismo d’accatto e personalismo strisciante, di confuso senso della Nazione e di individualismo negatore di ogni forma di solidarismo sociale. Nord e Sud uniti questa volta nella lotta contro. Ma, attenzione: se tutti prevedevano questo risultato non sarà certo il solo Berlusconi a restarne sorpreso. Il Cavaliere di Arcore questo risultato lo sentiva, lo pensava, lo attendeva. Questa volta non era sceso in piazza per fare la differenza e ribaltare tutte le previsioni della vigilia, com’è accaduto quasi sempre. Il presidente del Consiglio ha aperto una sfida non già con i comunisti o i giudici brigatisti, formuletta che non convince più neppure lui. La sfida è al suo interno. Con la destra e con Umberto Bossi, il suo vero amico e alleato, spesse volte però tirato dal sigaro dalla sua base anti Pdl e dai suoi colonnelli più intelligenti e aperti. A tutti, immolandosi da solo (mai lo si è visto in tanta triste solitudine) ha voluto dire che senza di lui nessuno vivrà; e che il giocattolo della destra a tante facciate, può romperlo e ricostruirlo soltanto lui. Nessuno, pertanto, si azzardi a ipotizzare governi di responsabilità nazionale o d’altro genere senza di lui. “Se perdo seguitemi”, parafrasando una frase tragicamente nota, è un monito e insieme il lascito di una nuova speranza per la destra. L’attuale difficile legislatura, ci informa il Berlusconi di Milano e Napoli, si chiuderà con lui. Se si vuole anche prima, ma con lui, che potrà dettare le condizioni per i futuri assetti del Paese, presidenza della Repubblica in primis. C’è dunque un solo perdente, Silvio Berlusconi e la sua idea della politica. Ma non c’è un vincitore. Nel senso, cioè, che un voto contro di lui non significa automaticamente un voto per un’altra idea della politica. Per un’altra concezione del governo del Paese o un’altra alleanza che lo sostituisca. A Milano vince un “moderato”, Giuliano Pisapia, un esponente anomalo di quella sinistra che pur si pone, con Vendola, come rassicurante alternativa di governo. Quel Pisapia, le cui radici familiari si trovano nella Milano borghese e intellettualmente aperta, rassicura più di qualunque altro quel sano mondo imprenditoriale e quelle avanguardie culturali che ancora non sono usciti dal dramma di tangentopoli e dalle rovine del terrorismo. Pisapia è la risposta alla domanda di una città che vuole uscire dalla crisi d’identità in cui da decenni si trova. Una città che vuole costruire su basi nuove un nuovo modello industriale, che metta insieme capitale e lavoro, professionalità e tecnologia avanzata, cultura e mondo delle imprese, università – anch’essa in crisi – e una gioventù di stile nuovo e di stampo europeo. È questa Milano che ha voltato le spalle al Berlusconi di Milano, il quale ha gravemente mostrato di non conoscerla più. Di non sentirla più. A Napoli vince non la sinistra, ma un Berlusconi all’incontrario. Un Masaniello del terzo millennio, un rivoluzionario, forse sincero, ma dotato finora soltanto di una forte carica di protesta contro tutti. Contro la destra delle inquiete alleanze e delle inquietanti amicizie. Ma contro, soprattutto, la sinistra che da vent’anni governa Napoli e la Campania. Una sinistra talmente avversata, anche sul piano morale, che non ha potuto fare con lui alcuna alleanza né prima, né dopo il 16 maggio. La stessa prima dichiarazione di De Magistris «Napoli è finalmente liberata, la mia amministrazione non dovrà dare conto a nessuno», lo conferma e apre una lunga serie di interrogativi. Il primo è con chi vorrà governare Napoli. Il secondo, visto il rilievo nazionale del suo risultato, con chi vorrà costruire una nuova politica e una nuova alleanza. Ecco, Luigi De Magistris, uomo di coraggio e avventuroso, tosto come si dice dalle nostre parti. Un uomo che vince le sfide politiche più difficili, ma perde tutte le battaglie contro la corruzione e il sistema di potere che la emana. L’uomo che ha saputo sfruttare l’ampia popolarità che lo copre e il diffuso senso di rifiuto della politica e dei partiti che la rappresentano. Un uomo dall’intuito felino. Un uomo che è ormai lanciato su obiettivi che in parte nutriva e in parte la crisi della politica gli ha fornito. Contro il suo stesso leader e padre adottivo, come Di Pietro stesso si definisce, finto inconsapevole del fatto che Luigi De Magistris è il prodotto di se stesso. Quel che ha raggiunto lo avrebbe ottenuto egualmente anche se si fosse candidato con Berlusconi. E l’ex magistrato è anche un uomo molto ambizioso, che ha quale compagna privilegiata la fortuna e un nome che nella Napoli bene conta molto. Ha bruciato anzitempo tutte le tappe. Ora è una realtà, che tuttavia si trova come un’auto potente dinanzi a un bivio. Per ripartire veloce deve saper scegliere la giusta via. De Magistris è già un leader, ma deve scegliere di che natura vorrà che sia la sua leadership. Populista mista a moralista, che predica il bene contro il male, che si eleva sul marciume, vola alto e non scende a terra? Oppure idealista se non ideologica, agganciata a correnti di pensiero politico che, volendo rappresentare alcune fasce sociali del Paese, si carica del gravoso compito di costruire un’alternativa credibile di governo? Nel primo caso si troverebbe solo o in compagnia di Beppe Grillo. Di stelle ne raggiungerebbe dieci anziché cinque, ma Napoli e l’Italia resterebbero in mezzo al guado. Nel secondo troverebbe già pronto ad aspettarlo Nichi Vendola con il quale potrebbe dividere la leadership: uno al governo, uno alla guida politica della sinistra nuova. Resta infine una considerazione sull’uomo. Amara, per chi lo ha tanto amato oltre e prima di Napoli. Perché questo suo “rivoluzionario” impegno non l’ha prodotto in Calabria, dove c’era più bisogno di cambiamento e dove egli stesso aveva lanciato illusioni di poterlo compiere?

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