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di ENNIO STAMILE
Penso che abbia ragione Giuliano Mignini, pm nel processo per l’omicidio di Meredith Kercher, che subito dopo la sentenza di assoluzione piena per i due principali imputati Amanda Knox e Raffaele Sollecito “perché il fatto non sussiste”, ha commentato: «È stata una Caporetto dell’informazione. Mai visto una tale pressione mediatica, non si può andare avanti così». A conferma di ciò sono state sia le reazioni di tante persone che attendevano fuori dall’aula e che saputo il verdetto all’uscita dei due imputati e dei loro avvocati difensori hanno gridato “vergogna e venduti” nei confronti dei giudici della Corte d’Appello di Perugia; sia il commento del dipartimento di Stato americano che, attraverso la portavoce Victoria Nuland, ha dichiarato: «Gli Stati Uniti apprezzano l’attenta considerazione della vicenda nell’ambito del sistema giudiziario italiano». Qualora il verdetto fosse stato diverso, le reazioni sarebbero state diametralmente opposte. Ma il punto, evidentemente, non è questo. Riguarda la tanto agognata riforma della giustizia che da diverse legislature ogni governo dichiara prioritaria rispetto al programma e sistematicamente rimanda per vari motivi ben noti all’opinione pubblica, che nulla hanno a che vedere con l’esigenza di garantire a tutti un giusto processo e non esasperatamente lungo come accade in Italia senza che ancora nessuno vi abbia posto rimedio. A fronte di queste esigenze, che appartengono oltre che ad ogni cittadino ad ogni sistema democratico, ve ne sono ben altre che con la scusa della immunità tesa a garantire la libertà di chi governa, intendono accentrare il potere ad un unico soggetto proprio come è avvenuto ed ancora avviene nelle dittature. Quando non si riesce a soggiogare uno di questi poteri, come ad esempio quello giudiziario – in Italia il potere esecutivo e quello legislativo, benché la Costituzione dica ben altro, sono unificati, perché il Parlamento non fa altro che ratificare quanto il Governo propone – l’unica via percorribile è quella di screditarlo. I giudici, allora, o sono di sinistra, o corrotti, o venduti. Dopo il processo Meredith, conclusosi dopo undici ore di Camera di Consiglio, la domanda che mi pongo è la seguente: il processo mediatico, entrato in Italia a partire dagli anni Ottanta, concorre anch’esso a screditare il sistema giudiziario? Come giustamente sostiene un noto avvocato penalista, Tiziano Tedeschi, «il vortice provocato dal processo mediatico snaturalizza tutte le parti del processo. Tutti coloro che ci “hanno messo la faccia”, una volta esposti, magistrati compresi, non intendono più ritirare la propria tesi, la propria versione, anche a costo di nascondere ai loro stessi occhi ed alla loro coscienza la verità, tutto diventa lecito pur di evitare un umano, etico e sempre nobile: “ho sbagliato”. Neanche dinanzi all’evidenza si arretra dalla propria posizione, a dispregio della verità e del diritto. Il cittadino, dal canto suo, viene ammaliato da un sordido e freudiano voyerismo che lo allontana dalla giustizia intesa nell’accezione più aulica del termine. E pensare quanto ci è costata la realizzazione di uno Stato di diritto!» Chiediamoci, allora, qual è il limite tra il diritto di cronaca e la notizia lanciata, spesso ad arte, in pasto a chi ne fruisce, magari solo per alimentare quella sempre latente curiosità investigativa che alimenta la fantasia ed allontana dalla realtà con tutti i suoi enormi problemi che la compongono, crisi economica inclusa. A proposito di Sarah Scazzi, qualche tempo fa evidenziavo come la spettacolarizzazione di alcuni fatti di cronaca non produce effetti positivi se non l’innalzamento dell’audience di alcuni programmi televisivi, l’aumento delle tirature di alcune testate giornalistiche, la confusione dei ruoli. Paul Ricoeur, grande filosofo ed ermeneuta, sosteneva che «l’idea di uguaglianza dev’essere altrettanto forte dell’idea di giustizia». Ancora, che la sentenza gioca un forte ruolo a medio e lungo termine. A medio termine contribuisce a fare chiarezza. A lungo termine, invece, contribuisce alla pace sociale. Come mai sia nel primo che nel secondo grado di giudizio – penso sarà così anche nel terzo – nella sentenza del caso in esame, o in molti altri simili, ciò non accade? Non so voi , personalmente la risposta la trovo nelle riflessioni dell’avvocato Tedeschi: «Povero Socrate, il suo sacrificio non è servito a nulla, il suo tentativo di relegare i mediocri in un alveo di autocelebrazione o di autocommiserazione, in questa epoca non è riuscito. La loro sordida pruderie purtroppo viene assecondata e alimentata. Non esiste la cultura del dubbio. Il dubbio dovrebbe, infatti, illuminare chiunque si approcci per capire, valutare e giudicare un’azione umana. L’atteggiamento culturale deve essere composto, equidistante e non deve servire alla logica di chi ha fretta di indire una conferenza stampa per pavoneggiarsi affermando: “il caso è chiuso!”. Così come a distanza di pochi giorni dall’omicidio di Perugia gli inquirenti e la Procura comunicavano ai giornalisti. La certezza, nel momento della ricerca della verità, è degli imbecilli! “Oltre ogni ragionevole dubbio” non trova asilo nel processo mediatico dove, invece, ogni congettura diventa realtà. Da questo distorto meccanismo escono tutti sconfitti: i soggetti implicati, gli inquirenti, i giudici, chi si aspetta giustizia ed i cittadini tutti, ma principalmente la verità, unico dato che si perderà per sempre nell’oblio delle notizie».

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