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di MATTEO OLIVIERI
Nel recente sondaggio della University of Pennsylvania, condotto annualmente su un campione di 6.480 centri studi (c.d. think tank) sparsi in tutto il mondo, dei quali ben 1.757 nella sola Europa, i migliori non sono di provenienza italiana. A guardare ulteriormente, nella classifica riferita alla sola Europa occidentale non vi è neppure traccia di esperienze italiane nei primi venticinque posti. Eppure, i centri studi italiani presi in esame sono novanta, ma nessuno di essi arriva tra i finalisti. La domanda spontanea è: che fine abbiamo fatto? Creare stabili “serbatoi di conoscenza” I think tank si sono affermati a livello mondiale come “serbatoi di conoscenza” pubblici o privati di derivazione universitaria ma indipendenti quanto a risorse e strumenti, in cui si approfondiscono singole tematiche di ricerca con un taglio spiccatamente internazionale. Data questa loro peculiarità, è all’interno di essi che molto spesso vengono sviluppate e testate le teorie prima che queste vengano insegnate nelle università e, per questo motivo, i think tank diventano il punto di riferimento obbligato per chiunque voglia specializzarsi in una determinata branca della scienza, o sia alla ricerca delle soluzioni più autorevoli in un particolare settore di interesse. Tornando al nostro sondaggio, come è possibile che non esiste una sola voce italiana autorevole a livello internazionale? Si sa, il fenomeno della “fuga dei cervelli” premia all’estero le eccellenze italiane, ma quello è un fenomeno che riguarda le singole individualità; qui è diverso: si parla di come le singole individualità possano essere organizzate e fatte lavorare insieme in un sistema che crei percorsi duraturi di ricerca. Al momento – questo dice la rilevazione – simili strutture di rilievo internazionale mancano e, con esse, la possibilità di produrre conoscenza stabile che incida sui meccanismi di sviluppo! Il rischio che emerge è che il Sistema Italia nel suo complesso sia destinato a scomparire dalla scena culturale internazionale con la seguente sentenza: “morte per incapacità di organizzazione”. Un bel paradosso, che finisce per confermare il laconico giudizio di Joseph Schumpeter secondo cui, storicamente, il nostro Paese ha sempre avuto “i migliori economisti e la peggiore moneta”. Si dirà che queste rilevazioni lasciano il tempo che trovano, che molte di esse cercano solo il sensazionalismo o di sdoganare per l’ennesima volta una sorta di superiorità culturale dei 06/2011 Quaderni dell’Osservatorio Alphecca paesi nordici rispetto a quelli latini. Ma questa volta non pare proprio il caso: la fonte è autorevole e indipendente; nella lista dei finalisti compaiono centri studi sia di paesi in via di sviluppo che di paesi sottosviluppati, e per il sondaggio viene utilizzato un processo a più stadi che coinvolge studiosi di fama, esperti del mondo scientifico e dei media, chiamati a valutare la qualità e l’importanza delle attività svolte da ogni singolo centro studi. Scorrendo la lista, è interessante notare come fra i casi più eclatanti – a fianco di istituti blasonati e di lunga tradizione scientifica – ve ne sono alcuni molto giovani, fondati in paesi (anche europei) dalla recente tradizione accademica, e in condizioni di relativa modestia di risorse. Ma – a quanto pare – questi si sono saputi imporre a livello internazionale per l’efficacia delle posizioni prese, diventando in breve tempo catalizzatori di passione, energia creativa e capacità di dire cose nuove. Portatori di un messaggio di novità. Già, avere qualcosa da dire: questo sembra essere il punto fondamentale del discorso. Siamo sicuri che abbiamo ancora qualcosa da dire? La mia impressione – lo dico con grande umiltà – è alquanto negativa, almeno a giudicare dal fatto che la recente riforma universitaria italiana ha richiesto di introdurre per legge quei cambiamenti organizzativi che in altre realtà internazionali sono stati il frutto del riconoscimento di una pura necessità funzionale. Piuttosto, come poter essere portatori di un messaggio di novità? Nel dubbio conviene analizzare quello che hanno fatto gli altri, e si vedrà che: 1. le principali business school internazionali, complice la recente crisi finanziaria internazionale, sono state costrette a ripensare il proprio ruolo educativo, ripartendo proprio da quelle soft skills per troppo tempo considerate un relitto del passato (come l’abilità di scrittura e di lettura, la capacità di difendere le proprie tesi e di argomentare efficacemente convincendo l’uditorio, o presentando punti di vista alternativi, ecc.); 2. si fa avanti una richiesta finora latente di giudicare il valore della ricerca non semplicemente dalla lista delle pubblicazioni effettuate ma dall’impatto concreto che queste hanno sui territori; 3. la ricerca puramente quantitativa, costruita intorno a ipotesi rigide, finisce per trasformarsi in un sistema auto-referenziale, incomunicabile e chiuso al grosso pubblico. Tutti elementi che sono stati ben sintetizzati nel messaggio di insediamento del nuovo preside della Harvard Business School, il quale ha sottolineato come si avverta la necessità di programmi che puntino a coltivare negli studenti il giudizio, piuttosto che fornir loro i soli strumenti analitici di base. Insomma, il segreto della felicità non sta tanto nell’insegnare come calcolare, quanto piuttosto nel sapere cosa calcolare: in questo atto, infatti, le persone sono chiamate ad esprimere un giudizio, che li coinvolge con tutte le loro qualità umane. Dunque, per stare al passo coi tempi, pare emergere la necessità di non essere più spettatori della conoscenza altrui, ma piuttosto protagonisti! Solo così si potrà sperare di formare persone di competenza e di carattere, insomma quei futuri leader della società che sappiano ispirare gli altri a realizzare assieme i grandi ideali che animano gli uomini. Pertanto, conviene cominciare a riflettere seriamente sull’efficacia dell’educazione nel nostro paese, e capire quanto siamo in grado di reggere al confronto internazionale in termini di capacità di creare un profilo di persone che sappiano effettivamente guidare la società del domani. La certezza da cui dovremmo essere sorretti è che lo stesso percorso di ricerca di un efficace metodo educativo è stato già intrapreso a livello internazionale, e che – ancora una volta – si ravvisa nell’humanitas la chiave di lettura per interpretare il futuro. Esiste una speranza per la Calabria? La rilevazione citata in apertura mostra come paesi partiti da una situazione ben più drammatica di quella calabrese ce l’abbiano fatta: a quanto pare non si tratta solo di una questione di risorse finanziarie, che pur rappresenta una parte fondamentale di ogni percorso culturale credibile, quanto piuttosto di un metodo educativo che sappia valorizzare ogni segno di speranza che è già presente intorno a noi, e lo metta in rete per creare nuove occasioni di sviluppo. In questo senso, la Calabria mi sembra – paradossalmente – in prima linea a livello internazionale: basti pensare alle generazioni di calabresi presenti in tutto il mondo, molte delle quali con ancora vivo il senso della propria terra, e già oggi desiderosi di dare indietro alla propria comunità di origine o alla ricerca di un modo per potersi mettere efficacemente al servizio della propria terra. O ancora, il rispetto che i calabresi hanno saputo guadagnarsi a livello nazionale e internazionale in anni di duro e appassionato lavoro. Tutti elementi che 06/2011 Quaderni dell’Osservatorio Alphecca non devono essere dispersi nel vento ma capitalizzati per il maggior benessere di tutti. Sfortunatamente, la motivazione di tante di queste persone si è ridotta in alcuni casi a puro sforzo individuale, in altri casi è stata mortificata da un sistema che sembra volutamente dimenticare come dietro a un rospo si possa celare per incantesimo un principe. Ora è il tempo di riprovare a fare lo stesso percorso intrapreso in passato, ma con una maggiore consapevolezza dei propri mezzi. La mia impressione è che la società civile calabrese non ha saputo esprimere finora tutta la sua potenzialità: probabilmente è mancato un grande progetto educativo, che ha reso vano anche il tentativo di replicare qui in Calabria esperienze internazionali di successo. O forse è mancata la consapevolezza che qualsiasi innovazione porta connaturata in sé una dimensione sociale, in cui ogni persona conta poiché chiunque apporta un proprio bagaglio di esperienze, relazioni e competenze. Non è un caso che ogni volta che le persone siano state chiamate intorno allo stesso tavolo per ragionare insieme in termini operativi, la risposta è stata positiva oltre ogni aspettativa, rendendo attuabile anche quelle idee più ambiziose cui, altrimenti, neppure la figura dell’eroe solitario saprebbe far fronte nonostante gli sforzi titanici. E’ il tempo delle scelte. Senza dubbio anche la Calabria è posta oggi di fronte a un bivio: o replicare in serie la trasmissione di conoscenze altrui, oppure provare a diventare motori di cambiamento, a partire dalla creatività e dall’intraprendenza che – di certo – non ci mancano. Se riusciremo in questo obiettivo, ci renderemo conto di aver raggiunto allo stesso tempo due scopi: uno di tipo economico, consistente nella capacità di imparare a lavorare insieme e in modo produttivo; un altro di tipo democratico, poiché ci convinceremo del fatto che l’intelligenza non consiste solo nella quantità di informazioni disponibili nel proprio cervello, quanto anche nella capacità di leggere il contesto in cui ci si trova, un dono che appartiene indistintamente a tutti gli uomini, anche a coloro con minore scolarità. Conseguentemente, un sistema educativo moderno dovrebbe essere pensato in modo da favorire l’acquisizione di primarie esperienze di vita ma anche e soprattutto di un metodo di lavoro, che aiuti a orientarsi anche quando le esperienze siano insufficienti. A mio avviso, esistono sulla carta tutte le premesse perché ciò accada; è necessario tuttavia comprendere che non basta la sola tenacia del proprio lavoro per realizzare idee ambiziose, ma che ci siano anche le condizioni favorevoli nell’ambiente in cui si opera. Queste vengono create da chiunque decida di “mettere nel mezzo” (lat. interesse) quanto dispone, per il maggior benessere di tutti. Solo così – a mio avviso – saremo in grado di dare un valido aiuto alla nostra terra, consentendo ai tanti studenti che decidono di rimanere o di ritornare in Calabria, di esprimere appieno quelle potenzialità finora inespresse.

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