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di LUIGI NIGER
Del ruolo del padre si potrebbe parlare, forse, in modo corretto e attendibile, ricorrendo all’oggetto di indagine indicato da Michel de Montaigne a proposito dell’essere: non descrivo l’essere; descrivo il passaggio. Un passaggio per lo più segnato dal tempo, dalla temperie storico-culturale. Da qui, da sempre, l’esistenza di padri molteplici, di cui ci limitiamo a indicare solo qualcuno tra i noti, cercando, infine, quei pochi discutibili tratti che, indipendentemente dal tempo, potrebbero appartenere al padre in quanto tale. Nel 1908 Sigmund Freud è un neurologo affermato, ammirato e criticato per la sua rivoluzionaria scoperta della psicoanalisi. Quello stesso anno muore il padre Jacob e Freud annota: «È il fatto più importante, la perdita più amara nella vita di un uomo». Nel corso della sua esistenza ha sempre ritenuto il padre la figura più importante negli affetti di un bambino, e, probabilmente, anche nei suoi. Perché? Come mai? Potremmo fare tante ipotesi, ma ci limitiamo a indicarne solo due: 1) per i suoi problemi irrisolti nei confronti della figura materna, e di quella paterna; 2) perché era imbevuto di cultura ebraica, che, come è noto, è una cultura patriarcale. Nella psicologia freudiana, comunque, il ruolo del padre è veramente rilevante e circa vent’anni dopo la morte del padre vi ritorna nell’opera (per non parlare delle altre) Il disagio della civiltà: “Non potrei indicare nell’infanzia nessun bisogno tanto forte come quello della protezione paterna”. Partiamo da questo rapporto, inteso e problematico, tra un padre e un figlio illustre, per soffermarci brevemente sulla figura del padre, non prima di chiederci: c’è oggi un padre? Si è assentato, si è mascherato, è un disertore? È quello vero o quello finto? È quello reale o quello virtuale? Le domande potrebbero continuare, se aggiungiamo la riflessione sul tipo di padre di cui avremmo bisogno oggi. Anni fa, con un padre ancora vivente e da giovane padre, avevo progettato di scrivere un libro sulla figura paterna, con due titoli possibili: dove sei? Alla ricerca del padre? In seguito, come tanti altri progetti che facciamo nel corso della nostra esistenza, il progetto rimase tale, mentre nella cultura italiana il padre da almeno trent’anni per un certo periodo ritorna, poi si assenta e quindi nuovo ritorna, magari sotto altre vesti, con diverse qualità, fino a rintracciarne i resti. Sono sufficienti, forse, tre libri per sintetizzare con efficacia il percorso travagliato del padre negli ultimi tre decenni, tempestosi e sconvolgenti. Il primo si riferisce al 1983, In nome del padre, (AA.VV., Laterza), nel quale dopo la grande rivolta antiautoritaria del Sessantotto, si assiste a un ritorno dei padri, nel senso che si coglie una diffusa richiesta di ordine e di guida. Il secondo libro è Il gesto di Ettore (Bollati-Boringhieri) di Luigi Zoya, pubblicato nel 2001, con il sottotitolo Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre. L’autore mette in evidenza la crisi profonda del ruolo del padre, dopo aver sottolineato, attraverso un rapido excursus storico, l’importanza di questo grande simbolo collettivo, e quindi la sua presenza psichica profonda. Infine, il più recente, 2011, è Quel che resta del padre (Bollati-Boringhieri) di Massimo Recalcati, nel quale la riflessione centrale è rappresentata dallo svuotamento di autorità della figura paterna, svuotamento imputabile, soprattutto, alla scomparsa del limite. Giustamente, sottolinea Recalcati in risposta a una intervista, oggi “i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli”. Insomma, padri che danno, in particolare, in termini di cose, che cedono, che evitano accuratamente possibili conflitti. Fermo restando che ciascun padre è un individuo vissuto in un certo tempo, ci preme sottolineare che, in ogni caso, il rapporto, positivo o negativo, con il padre ha condizionato e continua a condizionare la formazione della personalità del figlio. Oltre al citato Freud, basti pensare, tanto per indicare alcune testimonianze famose, alle ombre ossessive, ai fantasmi persecutori dei padri che popolano l’arte e le opere di Mozart e di Kierkegaard, al padre assente di Leopardi e, in particolare, a quel padre temuto, odiato e compreso di Kafka. Di quest’ultimo abbiamo una lettera al padre, che costituisce “una creazione di lancinante unicità”, veramente un documento terribile e straziante, sul quale meditare a lungo: “.quel che per te è innocenza può essere colpa per me, quel che per te non ha conseguenze può essere per me il coperchio della bara”. Di fronte ai tantissimi giovani, figli e nipoti, con un futuro drammaticamente incerto, un domani tragicamente problematico, noi padri non dovremmo interrogarci sugli errori commessi e sulle responsabilità mancate per comportamenti complici, vili, indifferenti o negligenti con i quali abbiamo preparato coperchi per le bare? Giovani che vivono e narrano la loro disperazione, senza fine, senza ancoraggi, senza punti di riferimenti credibili. Una volta si indicava come possibile modello paterno colui che dà autorità e saggezza: “. l’autorità è colui che dà le regole, che guida, che stabilisce dei limiti, che sanziona se necessario. Saggio è chi si confronta con l’altro senza ritenere di sapere già tutto, saggio è chi stimola o modera le attività altrui avendo uno sguardo sul futuro” (A. Bramulli, Da maschio a uomo da uomo a padre, in Rocca, 15 luglio 1998). Oggi, forse, basterebbe un padre che non si neghi ai figli, cioè partecipi emotivamente, che non si ponga in competizione con i figli, che non rinunci a dare orientamenti, che favorisca e non inibisca, che condivida le sue storie e la storia e, soprattutto, che non si lasci possedere dal demone del potere nei suoi aspetti peggiori. Spesso, troppo spesso, il potere, anche quello paterno, si manifesta come violenza, come menzogna, come chiusura agli altri, con i risultati, che ieri e oggi, abbiamo sotto gli occhi. Non abbiamo bisogno, invece, di mitezza, di sincerità, di disponibilità all’ascolto attento dell’altro da noi, a partire dai figli? Nel momento in cui il fallimento come padri, e, quindi, come Stato, società, modello di sviluppo, è evidente, palese, indubitabile, corriamo il rischio di facili moralismi o dei piagnistei o dei vittimismi assolutori e consolatori, dimenticando che anche i fallimenti possono contribuire alla crescita e alla formazione individuali e collettive. Nell’analisi dei disegni infantili, tra le altre cose, andiamo alla ricerca della presenza del sole, del colore giallo, come testimonianza di un padre che c’è, di un ancoraggio sicuro, di un riferimento certo. Come padri potremmo incominciare a uscire dalla notte buia e provare a sorgere nell’alba imminente.

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