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di ALFONSO LORELLI
Una ricorrenza civile più sentita, più discussa, più celebrata al Sud che al Nord. Impotenti a fermare la lenta rottura dell’unità del paese perseguita, tappa dopo tappa, dalla Lega Nord, gli abitanti del Mezzogiorno stanno proiettando sulle celebrazioni dell’Unità d’Italia tutte le loro preoccupazioni e paure per un futuro che “sentono” sarà peggiore del presente; per la prima volta abbiamo la percezione che stiamo per perdere un bene finora considerato intangibile, del quale scopriamo l’importanza quasi vitale e che perciò vogliamo difendere ad ogni costo. Ma forse è troppo tardi, ce ne dovevamo accorgere prima; il processo di disgregazione sostanziale dell’unità dello Stato è abbastanza avanzato, fermarlo sarà molto difficile, anche perché è lo stesso Mezzogiorno a non saper trovare gli strumenti per farlo, come non ha capito che per battere il progetto leghista della secessione bisognava eleggere in Parlamento rappresentanti che si impegnavano a far fronte comune contro Bossi e tutti i suoi alleati. Oggi è come se ci rendessimo conto che è colpa nostra se in 150 anni non siamo riusciti a imporre alle classi dirigenti e dominanti del paese la risoluzione della “questione meridionale”, mentre agli abitanti delle regioni ricche sono bastati venti anni per far dare a governi e parlamenti risposte concrete alla loro fantomatica “questione settentrionale”. Tutto ciò è avvenuto mentre milioni di cittadini del Sud continuavano, e continuano, a sostenere gli alleati di governo di Bossi anche loro corresponsabili della distruzione dell’unità del Paese. Oggi, quando il cavallo che nasconde i guerrieri nemici è già entrato nelle mura della città che sta per essere distrutta, i meridionali pateticamente si aggrappano alla bandiera tricolore, la sventolano dovunque, la esaltano e l’adorano, come in un rito mistico, quasi a voler espiare il loro senso di colpa o voler nascondere ancora la loro stessa colpa. Se dopo il 17 marzo prossimo continueremo a essere e agire come prima, per noi questa celebrazione sarà stata vana. Celebrare l’Unità d’Italia si deve; Perché dobbiamo prendere coscienza del pericolo incombente e capire come organizzare la resistenza possibile; Perché fermare la deriva totale del secessionismo ancora si può; Perché dobbiamo capire quanto è importante la difesa dei contenuti della Costituzione continuamente picconati da una classe politica di plutocrati guidati da un satrapo ignorante che usa lo Stato per difendere e accrescere i suoi privilegi e quelli di nugoli di servi che lo osannano, compresi i tanti “signorsì” calabresi e meridionali; Perché è un’occasione per riflettere sui nostri errori degli ultimi 150 anni e sulle cause dell’accresciuto divario tra Nord e Sud; Perché non possiamo pensare di risolvere i nostri problemi macerandoci nel rimpianto di un mitico Eldorado perduto, come fanno i neo-borbonici, falsando la storia e accentuando l’odio e il desiderio di divisione della nazione proprio come vuole Bossi al quale, indirettamente rendono servigio. Voler riproporre il mito di un Mezzogiorno ricco e progredito, le cui casse rigonfie d’oro avrebbero sanato i bilanci deficitari degli altri Stati preunitari e le cui industrie erano le più avanzate d’Europa significa non soltanto affermare delle falsità, peraltro già smentite da storici di fama quali Salvemini e Fortunato, ma additare ai meridionali una strada sbagliata che è quella del vittimismo eterno e dell’orgoglio ferito, creando un avvitamento su noi stessi senza via d’uscita. Gli inganni vanno disvelati; sia quello di un Risorgimento fatto soltanto di eroi e martiri senza macchia e senza paura, sia quello di un regno delle due Sicilie più ricco e più avanzato degli altri Stati pre-unitari. A tal proposito è utile ricordare ai neo-borbonici che nelle casse del regno delle due Sicilie vi era, si, più oro che in quelle piemontesi ma quell’oro non era del popolo, non veniva usato per costruire strade, scuole o ospedali ma navi da guerra e cannoni. Nel 1860 in Calabria gli analfabeti erano il 95%, in Lombardia il 60%; negli Stati sabaudi vi erano 802 km. di ferrovia, nel regno di Napoli 127 e i treni restavano fermi di domenica perché “giorno dedicato al Signore”; nel Nord vi erano 67.000 km. di strade nel Sud 15 km. di mulattiere. Celebrare il 150° dell’Unità ha un senso se si tenta di riconciliare ciò che si sta separando, e ciò può avvenire facendo un’operazione-verità anche sui fatti e sugli uomini. Insieme a Garibaldi, a Mazzini e a Cavour, ai Mille e agli eroi dei moti e delle guerre per l’indipendenza occorre ricordare anche quelle centinaia di migliaia di meridionali che nel 1860 avevano sperato di liberarsi dal giogo dei latifondisti e che, ben presto delusi, accorgendosi di essere passati “da la furca a lu palu”, si dettero al brigantaggio o lo appoggiarono. Nessuno deve dimenticare che Garibaldi conquistò facilmente l’Italia borbonica, a dimostrazione della mancanza di resistenza popolare che invece si scatenò quando la terra restò nelle mani dei latifondisti-gattopardi schieratisi con il nuovo ordine; quando i decreti garibaldini sull’uso gratuito dei demani silani da parte dei contadini vennero sospesi dal “garibaldino” Donato Morelli nell’interesse dei proprietari preoccupati di un possibile contagio; quando le nuove tasse sui consumi introdotte dallo Stato unitario colpirono principalmente la povera gente; quando la leva militare obbligatoria privò per 5 anni le famiglie povere delle braccia da lavoro; quando Bixio fucilò i contadini di Bronte per difendere il latifondo Nelson. Fu guerra atroce, e lo fu ancor più da parte piemontese, con le leggi speciali di guerra, le fucilazioni di massa, i paesi interamente bruciati. Pagine orribili della nostra storia, in gran parte nascoste dalla storiografia ufficiale forse per esaltare ciò che unisce e non ciò che divide o fors’anche per vergogna delle crudeltà commesse; fatti che oggi occorre far conoscere ma senza falsi storici e senza esasperare rancori che porterebbero acqua soltanto al mulino leghista. È troppo facile nascondere le nostre responsabilità dietro la tesi che il Sud è povero per colpa del Nord che lo ha colonizzato e depredato, senza chiederci perché ci siamo fatti colonizzare e per colpa di quali e quanti meridionali ciò si è verificato e continua a verificarsi. Da quando è arrivato il suffragio universale noi scegliamo la nostra classe politica, periferica e centrale; ma chi, e come abbiamo scelto e continuiamo a scegliere? Forse che oggi i nostri parlamentari si battono contro le leggi che stanno distruggendo l’Unità, costruiscono lo “Stato minimo”, spostano fondi europei dal Sud al Nord, introducono nuove tasse municipali eccetera? Noi continuiamo a scegliere i nostri politici-gattopardi, presenti anche alle cerimonie del 150°, senza renderci conto che i gattopardi sono cittadini della peggiore specie, non agnostici ma codardi sempre pronti a stare dalla parte del vincitore per difendere patrimoni e privilegi personali e di clan, retori pubblici ed affaristi privati. Se non incominciamo a fare i conti con noi stessi e con le nostre scelte sciagurate, addossare le colpe alla conquista piemontese e alle sue atrocità servirà soltanto come rimozione delle nostre responsabilità.

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