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di MARIO NASONE*
Nelle carcere calabresi la metà dei detenuti ha un’età compresa tra i 18 ed i ai 35 anni, Nella maggior parte dei casi i tratta di giovani alle prime esperienze detentive, definiti anche “giovani in bilico”, perché non hanno ancora fatto una scelta irreversibile di criminalità e che possono quindi ancora essere recuperati. Giovani che si trovano a stretto contatto con soggetti i appartenenti alla criminalità organizzata che sempre più numerosi, grazie ai successi ottenuti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura, fanno ogni giorno ingresso nelle carceri calabresi: E’ notorio infatti che la criminalità organizzata tende a mantenere il suo potere anche all’interno del carcere, anzi questo territorio è sempre stato considerato un “luogo strategico”, sia di legittimazione dei rapporti di forza all’interno delle organizzazioni mafiose, sia di possibilità di riproduzione attraverso l’attivazione di precisi meccanismi di cooptazione. Il carcere, con il regime di “convivenza forzata” che instaura, rappresenta il clima più favorevole per la criminalità organizzata per “avvicinare” nuovi soggetti, soprattutto giovani, attraverso una vera e propria azione di indottrinamento che può iniziare con forme minime di “accoglienza e solidarietà” attivate verso chi viene arrestato e che possono consistere nel mettere a disposizione l’avvocato, nel farsi carico dei problemi economici della famiglia, nel reperire un lavoro” al momento della scarcerazione. Emblematica è a tale proposito la testimonianza di un collaboratore di giustizia di Reggio Calabria, di come ha vissuto a suo tempo il rito dell’affiliazione mafiosa all’interno delle carceri: “per entrare nella cosca di regola i tempi dell’osservazione variano dai 6 mesi ad un anno. Il candidato per fare ingresso nella cosca viene coltivato, studiato, messo alla prova con piccole cose, azioni di media importanza che ne evidenziano il valore ed il coraggio. Durante il mio primo arresto, all’età di 18 anni, fui battezzato e mi fu detto che ero un uomo Loro”. Dalla testimonianza del collaboratore di giustizia emerge in modo inquietante come all’interno delle carceri vige un vero e proprio “trattamento penitenziario” da parte della criminalità organizzata nei confronti dei giovani detenuti, quasi “alternativo” a quello previsto dall’ordinamento penitenziario. Tale fenomeno, che in passato ha avuto dimensioni particolarmente vistose, si è solo in parte attenuato negli ultimi anni a seguito dei provvedimenti adottati dal Dap di divisione dei detenuti in sezioni di alta e media sicurezza e sia soprattutto grazie all’introduzione del regime differenziato ex art. 41 bis che ha almeno garantito la separazione tra i capi carismatici delle organizzazioni criminali e gli altri detenuti. E’ anche per questo che la criminalità organizzata di stampo mafioso ha una grande capacità di riprodursi e un carattere pervasivo. Ciò gli permette di non soccombere sotto i colpi della azione repressiva e di contare su un ricambio continuo attraverso la sostituzione dei capi arrestati con nuovi elementi che non trovano difficoltà a ricoprire gli stessi ruoli all’interno delle gerarchie mafiose. Per questo è necessario che accanto alla azione giudiziaria di contrasto vi sia parallelamente una azione mirata di prevenzione per bloccare i processi di riproduzione del fenomeno. In questa azione il sistema penitenziario ha un ruolo strategico che finora è stato sotto valutato. L’introduzione del regime 41 bis, il cosiddetto “carcere duro” il trasferimento in strutture penitenziarie di altre regioni dei capi della ’ndrangheta è stata una scelta positiva anche in questa ottica ma non ha risolto il problema della affiliazione mafiosa che continua anche a causa del sovraffollamento delle carceri e della riduzione dei fondi previsti per la realizzazione di attività lavorative, trattamentali e di recupero sociale. In Calabria, grazie all’intuizione del compianto provveditore regionale Paolo Quattrone, è stato avviato nel 2004 l’Istituto a custodia attenuata di Laureana di Borrello, unico in Italia che ha permesso la sperimentazione di un trattamento avanzato dei giovani detenuti a cui è stata concessa la possibilità di fruire di pe rcorsi di riabilitazione e di responsabilizzazione attraverso il lavoro ed un progetto pedagogico personalizzato. L’idea di Quattrone non era quella di realizzare a Laureana un’isola felice ma di estendere questo metodo di lavoro a tutte le carceri calabresi, offrendo ai detenuti che ne avessero la volontà una concreta alternativa alla condizione di passività e di deresponsabilizzazione che normalmente il carcere provoca. Questo percorso riformatore si è purtroppo bloccato anche in Calabria. Come è stato segnalato dai sindacati penitenziari e dagli stessi Direttori delle carceri calabresi la situazione di sovraffollamento ha orma superato i livelli di guardia, così come si assiste ad un vero e proprio abbandono delle politiche di trattamento penitenziario, di recupero e di inclusione sociale anche di quei soggetti che potrebbero averne un reale beneficio Una situazione di emergenza che ha trasformato le carceri in contenitori di abbandono, vere e proprie discariche sociali con un aumento progressivo di soggetti tossicodipendenti, immigrati, disagiati mentali e sociali.. Una politica miope, che invece di creare sicurezza la fa venire meno, nel momento in cui il carcere invece di produrre riabilitazione ed opportunità di riscatto sociale ,produce recidiva e quindi un aumento dei soggetti che inevitabilmente ricadranno nel reato. La strada da imboccare è anche quella delle misure alternative al carcere, che ovviamente non può riguardare i soggetti autori di reati ad alto allarme sociale che rappresentano però solo il 20% della popolazione detenuta. Una strada che si è dimostrata positiva se si guardano le ricerche condotte che fanno emergere come l’80 % dei soggetti che fruiscono di tali benefici non commettono più reati, a fronte invece di una recidiva del 70% dei soggetti che dopo la dimissione e senza avere potuto sperimentare un reale percorso tratta mentale e di accompagnamento sociale, rientrano in carcere.. In gioco non vi è solo la dignità violata ed i diritti umani delle persone private della libertà-come ha autorevolmente denunciato il presidente Giorgio Napolitano-ma anche l’interesse dello Stato ad contrastare concretamente l’azione di proselitismo della criminalità organizzata sui giovani e quindi a non vanificare di fatto l’azione di repressione della Magistratura. In Calabria l’azione di contrasto alla ’ndrangheta si gioca anche su questo versante. Lo Stato nelle sue varie articolazioni centrali e locali deve decidere se intende realmente mettersi in concorrenza con l’antistato, che offre opportunità di lavoro, protezione, identità, oppure restare spettatore muto e rinunciare a questo suo ruolo educativo e preventivo. Nella nostra regione in particolare bisognerebbe avere il coraggio di riprendere quel protocollo d’intesa stipulato nel 2003 tra Regione e ministero della Giustizia, ed il progetto Athena voluto da Paolo Quattrone, per riprenderne l’attuazione in tutte le sue parti. Il ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma,meletto nella nostra regione e conoscitore del nostro contesto sociale, potrebbe essere il garante di una nuova stagione di rinnovamento del sistema penitenziario calabrese.
*presidente Centro comunitario Agape

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