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di ENZO ARCURI
Diciamocelo, direbbe Fiorello nella gustosa imitazione del ministro La Russa, diciamocelo con grande sincerità, in Calabria basta che qualcuno dia lo spunto ed ecco undiluvio di parole, di riflessioni, di annotazioni, di suggerimenti, un vorticoso rimpallo di critiche e di adulazioni. Ammettiamolo, siamo un popolo di chiacchieroni, parliamo, parliamo di tutto e su tutti, qualche volta l’azzecchiamo, più spesso scantoniamo, comunque un esercito di grafomani a caccia di un momento di popolarità. Per carità è bene che questo accada, fa bene discutere, confrontarsi, scambiare le opinioni, è segno di sensibilità e di civismo. A condizione però che non si parli a vanvera, che non si intervenga per onore di firma, che si dicano e si scrivano cose sensate in qualche modo e comunque in grado di fare capire meglio il tema o i temi in discussione, contribuendo all’acquisizione di nuove consapevolezze e alla costruzione di reali processi di avanzamento. Non sempre questo accade, anzi spesso il confronto è fuorviante, inconcludente, funzionale a obiettivi e progetti che nulla hanno da spartire con le esigenze vere di crescita della realtà regionale. Ed invece di progetti possibili ha bisogno la Calabria che tutte le statistiche ormai consegnano alla drammatica condizione di regione povera, la regione più povera del paese, afflitta da criticità storiche, fortemente condizionata dalla prepotenza ndranghetista che, pur in presenza di importanti successi dello stato, fa sentire il suo peso asfissiante in aree sempre più vaste della regione. Una regione pesantemente colpita dalla crisi più complessiva del continente, che rischia adesso di perdere anche i pochi punti di forza faticosamente costruiti negli ultimi decenni. Da questo punto di vista la crisi del porto di Gioia Tauro è esemplare e inquietante anche per la debolezza della reazione calabrese che non è parsa adeguata alla gravità del caso né sufficientemente convincente, capace soltanto di un desolante balbettio. E qui sorge il vero problema calabrese che conferma l’impietosa analisi di Giorgio Bocca nel suo racconto della Calabria di venti anni fa, per taluni aspetti rimasta immutata (il volume è stato riproposto da Rubettino) e che in qualche modo motiva le amare riflessioni di Eugenio Scalfari nella prefazione del libro di Bocca. La questione calabrese, al di la ed al di sopra di tutti gli altri aspetti della depressione regionale, è riconducibile essenzialmente all’inadeguatezza della sua classe dirigente. Anche se ci sono oggettive ragioni storiche, in primo luogo la costante emorragia di risorse umane che hanno impoverito il tessuto civile della regione, è tuttavia indubbio che nel corso dei decenni e più acutamente nell’ultimo ventennio, si è verificato un progressivo abbassamento della qualità del ceto politico regionale. Che è diventato sempre meno capace, a livello regionale, di affrontare con determinazione i problemi dello sviluppo e della crescita e che si è rivelato a livello governativo e parlamentare sempre più debole e balbettante nel confronto difficile e complicato con il potere romano. Purtroppo sono lontani i tempi di Guarasci, Antonio Guarasci, il primo presidente della Regione, scomparso immaturamente in un incidente stradale prima della fine del mandato, di Mancini, Giacomo Mancini senior, il ministro socialista che, dopo avere sconfitto alla sanità il flagello della poliomelite, ha sconfitto, al ministero dei lavori pubblici, il secolare isolamento della regione con la costruzione dell’autostrada, e qualche anno più tardi, al ministero per il Mezzogiorno, ha imposto la costruzione a Gioia Tauro del porto diventato poi il più grande porto del Mediterraneo, ed a Sibari di un altro porto che la dabbenaggine di una classe dirigente incapace ha finora sottratto a qualsiasi ipotesi di sviluppo. Sono anche lontani di tempi di Riccardo Misasi, potente esponente della Dc che da ministro della P.I. ha adeguato il sistema scolastico regionale ed ha tenuto a battesimo l’Università della Calabria. Sono lontani anche i tempi di Dario Antoniozzi che da ministro dei beni culturali ha assegnato a Cosenza la biblioteca nazionale, il laboratorio di restauro, la ristrutturazione di Palazzo Arnone divenuto sede della sovrintendenza e di un importante museo. Oggi alla regione si litiga sul nulla, si inventano “percorsi” (mai termine fu più abusato) che non portano da nessuna parte ed a Roma la deputazione parlamentare calabrese vale quanto a scopa un due di coppa, ossia zero. E se ne vedono i risultati. Ogni anno che passa la situazione peggiora. Nonostante le apparenze, la Calabria diventa sempre più povera. Non è un caso e non sarà mica colpa di Bocca o di Scalfari o di chi tenta di fare riflettere sulle negatività per farle superare. Le colpe hanno nomi e cognomi ben individuati che è bene tenere a mente. Ma le colpe sono anche più collettive nel senso che finora è mancata, da parte di quella che viene indicata come società civile, la giusta consapevolezza dei suoi diritti di cittadinanza e quindi una doverosa e responsabile selezione della rappresentanza. Non è questione secondaria o marginale. E’ la questione. Come ci suggeriscono appunto Scalfari e Bocca, che, a parte certe asprezze di linguaggio e forse anche qualche esasperazione provocata da antichi pregiudizi, aiutano comunque ad aprire gli occhi.

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